Le inutili stragi e il partito della guerra
«Occorreva che qualcuno prendesse la parola per i morti, per quelli già spazzati via e per quelli che verranno» ha scritto il veterano dei corrispondenti di guerra, Domenico Quirico su “La Stampa” dell’11 marzo, all’indomani delle anticipazioni di agenzia sull’intervista rilasciata da papa Francesco alla Radio televisione svizzera di lingua italiana e che andrà in onda il prossimo 20 marzo.
Dalla lettura del testo integrale riportato su Vatican news emerge il filo del colloquio sul significato del colore bianco, a cominciare dall’abito del pontefice romano, mutuato da quello dei domenicani, per arrivare al simbolo della bandiera usata convenzionalmente per aprire le trattative tra le parti in guerra. (Articolo 32 della IV Convenzione dell’Aja concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre e regolamento annesso che risale al 1907).
Come è noto, anche il famoso appello del 1917 formulato da Benedetto XV per porre fine al mattatoio del primo conflitto mondiale fu ostentatamente ignorato o rigettato al mittente, con l’accusa di disfattismo e intesa con il nemico, tanto che alcuni in Italia la collegarono con la rovinosa sconfitta di Caporetto.
Come ha evidenziato Norberto Bobbio, con l’invito estremo ai capi delle Nazioni Benetto XV «superando la tradizionale teoria della guerra giusta, la quale aveva permesso in passato di giustificare entrambi i belligeranti, entrambi li condannò, e respingendo la concezione etica della guerra chiamò la guerra qual essa era, e quale si sarebbe ancor più rivelata in tempo di pace, orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa (28 luglio 1915), e due anni dopo (1° agosto 1917), perseverando, inutile strage».
Non mancarono le reazioni contrarie del clero, legato alle ragioni politiche del proprio Paese. Famosa la conclusione della predica a Parigi del padre domenicano Antonin-Dalmace Sertillanges: «Santo Padre, noi non vogliamo la vostra pace!».
Leggendo le reazioni riportate dai media, sembra di non aver fatto grandi passi in avanti nel non comprendere l’invito urgente a trovare una via di uscita da un disastro destinato a provocare sempre più vittime in un conflitto che assume, nell’era tecnologica, le modalità di una logorante guerra di trincea pronta ad estendersi come un incendio impossibile da domare.
L’invito a non limitarsi all’invio di armi è arrivato da molto prima che il presidente francese Macron teorizzasse la presenza di truppe occidentali in Ucraina. L’incremento dei riservisti anche in Italia è un segnale che non deve lasciare indifferente mentre in Svezia, ad esempio, è tornata la coscrizione obbligatoria.
Più che criticare le parole del papa, i vertici dei Paesi europei non dovrebbero “balconear”, cioè restare alla finestra lasciando ad altri, come la Turchia di Erdogan, l’iniziativa della mediazione per un cessate il fuoco immediato.
Ma sono altre le parole dell’intervista a Francesco che restano volutamente ignorate, e precisamente quella di denuncia della logica degli affari legati al riarmo: «dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi».
La prospettiva del papa è totalmente altra: lo dimostra, ad esempio, il disagio provato quando ha notato che nelle celebrazioni dello sbarco vittorioso degli alleati in Normandia del 1944 non si fa cenno al dolore per le migliaia di giovani vite stroncate in quella battaglia.
Alla domanda dell’intervistatore svizzero che gli chiede «Come mai non si riesce a far passare il messaggio di quante vittime comporta la guerra?». Francesco risponde con l’immagine della madre che riceve la notizia della morte del figlio in guerra: «“Signora, abbiamo l’onore di dirle che lei ha un figlio eroe e questa è la medaglia”. A me importa del figlio, non della medaglia. Le hanno tolto il figlio e le danno una medaglia. Si sentono prese in giro».
Affermazioni scomode e antiretoriche che indicano la priorità da dare allo stop della carneficina. Secondo certe strategie belliche anche la strage può essere utile, e non mancano coloro che la giustificano da una parte e dall’altra, ma in questo caso è anche tragicamente inutile e può rivelarsi l’atto finale dell’umanità se solo si osserva con realismo la simulazione degli effetti del conflitto nucleare in Europa, elaborato dall’università di Princeton.
Perché ad essere coinvolte, ancora se indirettamente, nello scontro in Europa sono potenze dotate dell’arma nucleare, così come è noto che anche nella polveriera del Medio Oriente esiste un Paese come Israele che ne dispone come extrema ratio a difesa della sua esistenza.
È a partire da questo realismo che su Città Nuova, con riferimento all’Ucraina, abbiamo dato spazio alla proposta avanzata da Mario Primicerio, allievo diretto di Giorgio La Pira, di riprendere l’esempio della trattativa avanzata dal sindaco di Firenze che nel 1965 si recò, assieme all’allora giovane Primicerio, nel Vietnam sotto bombardamento statunitense per proporre a Ho Chi Minh un cessate il fuoco immediato. Soluzione accettata dal presidente del Vietnam del Nord, ma poi fatta fallire dal sabotaggio dell’intelligence occidentale, con il risultato di arrivare nel 1975 ad una trattativa stipulata in condizioni peggiori per gli Usa, dopo il tributo di altre migliaia di morti stroncate dalle armi.
Un’azione, quella di La Pira, concordata con il governo italiano nella congiuntura della presidenza dell’assemblea dell’Onu da parte di Amintore Fanfani. A conferma della possibilità dell’Italia e dell’Europa di non essere relegate a ruoli marginali nel contesto mondiale.
La percezione dell’inutilità della guerra è stata, inoltre, del tutto rimossa dopo la fine precipitosa della presenza occidentale in Afghanistan durata 20 anni, con l’impiego di un volume gigantesco di denaro consumato in armi (mille miliardi di dollari solo per gli Usa).
Appare, inoltre, inesistente del tutto rimossa dai media, con le solite eccezioni tra i quotidiani, la manifestazione di 30 mila persone che si è svolta il 9 marzo a Roma per chiedere ogni azione possibile per arrivare a far cessare il fuoco e impedire il protrarsi della strage nella Striscia di Gaza dove si contano oltre 30 mila morti tra i civili, milioni di sfollati ridotti alla fame con il blocco degli aiuti ai valichi di accesso, come denunciato dalla delegazione delle ong recatasi a Rafah.
Negoziare e far cessare la carneficina è, anche in questo caso, l’unico atto di realismo di fronte agli effetti a catena di tanto orrore. Il mondo assiste all’impotenza degli Usa che non riescono a fermare il loro alleato Benjamin Netanyahu, al quale continuano a fornire armi pesanti mentre lanciano aiuti alimentari dall’alto sulla popolazione di Gaza, talvolta, come è accaduto, provocando morti tra i civili per l’apertura difettosa dei paracadute.
La volontà esplicita di oltrepassare ogni linea rossa posta dallo stesso Biden, come da ultimo l’invasione di terra su vasta scala annunciata dal governo israeliano nell’area di Rafah a forte concentrazione di sfollati palestinesi, pone un tassello in più verso l’escalation bellica. L’arrivo delle navi europee nel Mar Rosso, anche se con regole d’ingaggio diverse da quelle anglo americane, espone anche il nostro Paese al casus belli che inevitabilmente produce una chiamata alle armi sempre più in crescita nella spesa mondiale.
«La guerra è una pazzia, è una pazzia», ripete senza tregua il papa. Non è una profezia separata dalla storia ma una chiamata alla ragione.
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