Le icone di Alexj

Lavora in una chiesa trasformata in segheria dal regime. «Non firmo le mie opere: non sono arte, ma preghiera».
Alexj Trunin

Quando da bambino si presentò davanti a un sacerdote ortodosso per fare benedire l’effige di san Nicola, dipinta in poche ore e bruciacchiata per riprodurre un che di antico, venne punito e richiamato severamente: aveva violato un’immagine sacra. Non lo dimentica mai Alexj Trunin: il suo primo approccio con le icone fu una sonora sgridata, ma a otto anni l’impeto artistico aveva avuto il sopravvento sul senso religioso, tanto più che lui era ateo e da quelle effigi era attirato non tanto per la sacralità, ma per la bellezza.

 

Una bellezza che ammutolisce e incanta, fatta di pollini dell’Afghanistan mescolati a polvere di fiori essiccati e a decine di foglie d’oro che fanno di questi oggetti di culto dell’ortodossia, dei veri e propri capolavori d’arte. Matisse ripeteva spesso che un pittore, prima di cimentarsi con i pennelli, avrebbe dovuto andare in Russia e copiare centinaia di icone.

 

Nel laboratorio di Alexj, alla periferia di Mosca, ci sono bozzetti di tutti i tipi: dalla storia di san Nicola, santo veneratissimo nell’ortodossia, alla vita di Pietro e Paolo. E poi ci sono i lavori compiuti: le riproduzioni della Trinità di Rublev e la Madonna di Vladimir, una sorta di calamita per lo sguardo. Bellissima e costosa, quasi tremila euro.

 

L’odore acre della trementina impregna questo stanzone al secondo piano della chiesa di san Nicola, trasformata dal regime in segheria e che Alexj sta provando a restituire alla sua iniziale destinazione, anche se macchinari e seghe fanno ancora bella mostra di sé, proprio sotto la cupola. «Sull’altare c’era una statua di Stalin», racconta. Impensabile guardando alla magnifica iconostasi uscita dal suo laboratorio e ai fedeli che in silenziosa devozione accendono candele.

 

«L’icona nella tradizione ortodossa non è un oggetto d’arte, ma di venerazione. Io dovrei pregare mentre dipingo e condividere la mia vita spirituale con chi si avvicina a queste effigi. Non c’è ragione di fronte alla bellezza, ma solo sentimento», spiega. Rifiuta di firmare i suoi lavori, Alexj, perché «sono una forma di ascesi», anche se lo stile usato nelle riproduzioni diventa una calligrafia riconoscibile ai più.

 

«Dipingere è come scrivere, ma in modo simbolico, ed è difficile sparire di fronte all’icona, non esistere». Una lezione che Alexj ha appreso dal suo maestro Adolf Ovchinnikov, uno dei più noti iconografi russi che, negli anni della rivoluzione, riuscì a conservare e restaurare centinaia di icone, facendosi assegnare persino un monastero divenuto il famoso Centro Grabar. «Mi presentai alla sua porta con i miei disegni e lui mi accolse nel suo atelier. Era il 1996. A casa dipingevo paesaggi insieme alle icone, i miei non erano credenti e io stesso non avevo detto loro di essere diventato cristiano». Alexj ha deciso di farsi battezzare nel 1988 ed è ora protodiacono della Chiesa ortodossa, con quattro vivaci bambini. «Il disegno di Dio si rivela attraverso l’incontro con una persona, così è stato per me con Adolf e con dei sacerdoti che mi hanno aiutato nella ricerca spirituale». Il suo disegno però ha anche l’odore di un’icona bruciacchiata che sta in bella vista nel suo laboratorio.

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons