E dopo le guerre siriane?
Le notizie dall’«inferno sulla terra», come il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterrez ha definito la situazione in cui si trova la popolazione del Ghouta orientale siriano, non sono purtroppo cambiate. Continuano a cadere bombe a barile, razzi e missili nonostante il cessate il fuoco votato all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’appello di papa Francesco per far cessare la guerra disumana e perfino la richiesta di sospensione delle ostilità per 5 ore al giorno (dalle 9 alle 14) del presidente russo Putin. I civili uccisi in una sola settimana di bombardamenti aerei sarebbero circa 500, ma ci sono anche migliaia di feriti, mancano cibo, acqua e medicine.
Va anche detto che questa è la versione dei fatti che circola in Europa e in Occidente, una versione che getta ogni colpa del massacro addosso al presidente siriano Assad e ai suoi alleati, soprattutto sciiti. Una versione che, se pur non è falsa, non fa alcun cenno, per esempio, all’altra metà dell’inferno, quello che vivono altri civili colpiti dai missili dei jihadisti e dei ribelli anti regime lanciati dal Ghouta orientale su Damasco. Si potrebbe anche parlare di bombe russe o cinesi sul Ghouta e di missili statunitensi su Damasco, ma dal punto di vista di chi ci rimane sotto non fa una grande differenza stabilire chi siano i fabbricanti, i mandanti o i fornitori. O se i finanziatori siano sauditi, qatarioti o chi altro.
L’altro fronte che si è riaperto al Nord della Siria dal 20 gennaio scorso viene denominato dai turchi Operazione ramoscello d’ulivo. Parrebbe il nome di un intervento di pacekeeping. Il presidente turco Erdogan sembra intendere la «faccenda di Afrin» come un necessario intervento di antiterrorismo. Lo stato maggiore turco emette regolari e meticolosi comunicati che informano sul numero di «terroristi neutralizzati» e su quello degli «obiettivi terroristici eliminati», ammettendo anche qualche danno collaterale. Detto in altri termini sono stati uccisi o imprigionati finora oltre 2 mila combattenti e civili curdi, fra i 350 obiettivi militari distrutti vanno compresi soprattutto ospedali e scuole, e fra i danni collaterali ci sarebbero almeno altri 100-150 morti tra i civili inermi, per non parlare di infrastrutture polverizzate e qualche sito archeologico hittita bombardato per errore. Non c’è tregua né dialogo che tenga, tanto più che l’intenzione più che esplicita di Erdogan è sempre stata quella di non fermarsi ad Afrin, ma come minimo di procedere anche verso Manbij, e poi si vedrà.
Che potevano fare i curdi dopo che anche l’amministrazione statunitense li ha usati e piantati in asso? Piuttosto che arrendersi, hanno chiesto aiuto all’esercito di Assad, dato che fino a prova contraria il Kurdistan siriano fa parte della Siria. Sembra che la mossa curda abbia colto i turchi in contropiede, perché la «faccenda di Afrin» è diventata molto più pericolosa di quanto potesse sembrare. L’intervento turco ha di fatto dato il via alla quarta fase delle guerre siriane: dopo la fase della guerra civile (al tempo delle primavere arabe), quella combattuta per procura da potenze regionali e quella contro il Daesh, ora si sta arrivando allo scontro diretto fra Stati: Turchia contro Siria, con tutto il tremendo rischio di una escalation senza fine che potrebbe coinvolgere direttamente Iran, Iraq, Arabia, Israele, Emirati ed Egitto, travolgendo Libano e Giordania, e chi più ne ha più ne metta. Anche perché alle spalle dei conflitti ci sono le grandi potenze con le loro lobby economiche, cinici mercanti di armi e fanatiche ideologie fondamentaliste (non soltanto islamiste, beninteso) che non hanno alcuna intenzione di fermare la strage.
Un dato fortemente inquietante viene segnalato in questi giorni dal rapporto di Save the Children che si intitola La guerra ai bambini: sono più di 357 milioni i bambini – uno su sei al mondo – che vivono attualmente in zone colpite da conflitti, oltre il 75% in più rispetto all’inizio degli anni ’90. Sono coinvolti il 39% dei bambini mediorientali, il 21% di quelli africani, per non citare che le situazioni più drammatiche. E dopo? Che uomini saranno domani questi bambini, o almeno quelli che sopravvivranno, dopo traumi, violenze, fame, terrore e senza alcuna formazione?
Se non ci si ferma per molti Paesi non ci sarà un dopo, se non situazioni fotocopia di quanto sono diventati Afghanistan, Somalia, Sudan, Iraq, Libia e Yemen dopo le devastanti guerre di questi anni. Tutti possiamo dare un contributo a fermare questo massacro: informandoci, creando un’opinione pubblica onesta, collaborando con chi difende la pace, sostenendo e accogliendo le vittime. E rifiutando sempre e comunque di appoggiare chi pretende di affrontare i problemi con le armi.