Le frontiere africane ci insegnano

Piccola cronaca di passaggi di confine tra Stati subsahariani. I posti di passaggio, proprio perché segnano una rottura nel tessuto sociale, sono anche quelli in cui meglio si possono vedere le caratteristiche dei popoli

In questi giorni più volte ho attraversato delle frontiere africane sub-sahariane, negli aeroporti (in due casi) o a piedi (in altri due casi). Ebbene, ogni volta che mi avvicinavo agli agenti di frontiera, pur avendo fatto tutto nelle regole e avere i visti stampigliati sul passaporto, mi sono ritrovato a non essere sicuro di me stesso. E in effetti ad ogni passaggio qualcosa non andava. Anche nei passaggi ai posti di blocco istituiti da finanzieri, agenti, gendarmi all’interno dei singoli Paesi, cosa assai frequente da queste parti, lo stesso sentimento mi ha colpito. Perché, mi dicevo, temere queste istituzioni degli Stati africani (precarie quanto si vuole ma pur sempre autorità pubbliche) più di quelle dei nostri Stati europei? Mi sono chiesto se non fosse il colore della mia pelle a condizionarmi… Anche. Oppure il fatto che il mio passaporto era uno di quelli che normalmente passano dappertutto, essendo dei “ricchi” Paesi europei… Anche. Persino, nella formazione dei miei sentimenti frontalieri, c’era un po’ di colpevolezza di origine coloniale, anche se non reputo avere mai avuto, o quasi, tali atteggiamenti di sfruttamento nei confronti di migranti di altri Paesi… Anche.

In realtà m’è sembrato di affrontare, in un’infinitesima scala, i sentimenti che coloro che arrivano dall’Africa sub-sahariana provano arrivando in uno dei nostri aeroporti, pur avendo tutte le carte in regola. C’è sempre un cavillo, c’è sempre una virgola fuori posto che può mandare tutto all’aria. Conosco casi addirittura imbarazzanti, per i nostri controlli… E di cavilli e di virgole fuori posto nei miei documenti ce n’erano non pochi: un timbro poco leggibile, la scrittura del mese di scadenza ambigua, un errore del cancelliere dell’ambasciata di tal Paese che doveva fare un visto turistico e invece ne ha fatto uno d’affari, una lettera di invito non proprio perfetta…

Quel che è diverso qui, rispetto alle nostre lande europee, è che la soluzione la si trova sempre, se si tratta di sottigliezze ovviamente, ma tutto sta nel mettere in moto un aspetto della vita umana che in Europa non è più ai primi posti delle nostre ambizioni personali: la relazione interpersonale strettamente dal vivo (non digitale), senza fretta (siamo tutti affetti dalla sindrome di Cronos in Europa), senza umiliare mai l’altro che sta facendo il suo lavoro (quante volte mi è venuto da dire: «Ma guardi bene», «ma la scadenza è scritta qui», «ma non vede che quel che cerca è nella pagina seguente?»).

Basta essere disponibili (il sorriso qui è un gran lasciapassare), mettersi al proprio posto istituzionale (l’autorità è dell’altro, punto e basta), e soprattutto non giudicare i comportamenti altrui («non sanno fare il loro lavoro», «non hanno gli occhi per vedere», «ma chi li ha formati?»). Se poi c’è un po’ di humour, tanto meglio. In una delle frontiere che hanno richiesto più tempo per transitare, quella per entrare in Togo, ad un certo punto ho notato che tutti i doganieri avevano dei gilet gialli, come quelli dei contestatori di Macron; ho fatto una battuta su tali gilet, chiedendo se fosse stata indetta una manifestazione contro la Francia da parte dei lavoratori delle frontiere togolesi, suscitando l’ilarità generale, una serie infinita di pacche sulle spalle e il passaggio senza altre esitazioni della frontiera.

L’Africa sta prepotentemente entrando nell’agone internazionale con una forza demografica e umana straordinaria, nonostante sfruttamenti, guerre, corruzioni. Il suo contributo, se lo accogliamo, sarà anche quello di ricordarci non solo il dovere di accoglienza dello straniero, inscritto nelle grandi civiltà mondiali, ma anche il “dovere di relazione”, la primazia del rapporto interpersonale su ogni altra relazione sociale.

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