Le fragili tregue

Dopo la guerra del '92 con cui gli armeni decretarono l'indipendenza dall'Azerbaijan del piccolo territorio attorno a Stepanakert, si sono alternati scontri e speranze di pace. Nel Nagorno-Karabakh si teme ora, infatti, un nuovo conflitto
Stepanakert

Che l’Azerbaijan stia diventando sempre più ricco per via del petrolio che può estrarre copiosamente dai giacimenti del Mar Caspio e che contemporaneamente l’Armenia, pur crescendo, rimane una nazione povera, è un’evidenza: il Pil di Baku sfiora i 30 miliardi di dollari, mentre a Yerevan ci si deve accontentare di un decimo di tale cifra.

Un divario che sta portando gli azeri a investire sempre più ingenti somme di denaro negli armamenti (si parla di 3-4 miliardi all’anno), mentre l’Armenia non può che dedicarvi poche decine di milioni. Ciò porta esercito e politici azeri, guidati dall’immarcescibile Ilham Aliyev, figlio del vecchio Heydar, che pilotò la transizione dal sistema sovietico all’indipendenza, a voler vendicare l’affronto della guerra del gennaio 1992, con la quale gli armeni decretarono l’indipendenza del piccolo territorio attorno a Stepanakert provocando la partenza dal Nagorno-Karabakh di mezzo milione di profughi azeri, secondo Baku, di meno di metà secondo altri organismi indipendenti. Mentre circa 200-250 mila armeni sono stati costretti a lasciare l’Azerbaijan nel quale vivevano.

Dopo il cessate il fuoco del 1993, le ceneri hanno coperto le braci rimaste comunque accese, al punto che scaramucce e ripicche sono continuate in tutti questi anni, in un’alternanza di speranze di pace – seguite in particolare dal “Gruppo di Minsk”, guidato da una co-presidenza franco-russo-statunitense, con la partecipazione anche di bielorussi, tedeschi, italiani, portoghesi, olandesi, svedesi, finlandesi e turchi, oltre naturalmente alla presenza di armeni e azeri – e di nuovi conflitti armati. La società civile sembra essere rimasta la sola voce che ancora si fa sentire nel complesso panorama del piccolo Paese, mentre l’Unione europea pare sorda alle insistenze azere per rivedere la situazione creatasi, che inficerebbe l’integrità territoriale del Paese.

Effettivamente, chiunque visiti Stepanakert – raggiungibile mediante un lungo corridoio consistente in una strada asfaltata e in una no man’s land di qualche decina di chilometri di lunghezza e di larghezza – s’accorge che effettivamente si tratta di una enclave in cui vivevano assieme azeri e armeni, ma che ora è esclusivamente abitata da questi ultimi. Eppure i legami col territorio azero sono ancora necessari per la sopravvivenza del Nagorno-Karabakh, a cominciare dalla situazione del precario approvvigionamento idrico dell’enclave.

La soluzione non appare il ritorno alla piena sovranità azera sul territorio, con la conseguente espulsione degli armeni – è facilmente immaginabile il dramma che scoppierebbe e lo strascico di violenze –, ma uno status di autonomia garantita da forze internazionali, che possa permettere il ritorno degli azeri senza il conseguente esodo degli armeni. La situazione si complica in questi mesi col raffreddamento delle relazioni russo-statunitensi, visto che gli azeri non hanno mai reciso il cordone ombelicale che li lega a Mosca, mentre la diaspora armena (più di metà della popolazione del Paese) s’installa sempre più negli Stati Uniti.

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