Le foibe e la storia dalla parte delle vittime

Nel giorno del ricordo, arriva il monito del presidente Mattarella a ricordare una tragedia per troppo tempo «rimossa, ignorata o addirittura negata»
foto Wikipedia

Il «Giorno del ricordo», istituito con la legge 92 del 2004, afferma solennemente che la Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio come giornata dedicata al fine di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

La scadenza così prossima al 27 gennaio, memoria delle vittime dell’Olocausto, si presta a confronti e polemiche fuori luogo, mentre può essere, invece, l’occasione per dedicare attenzione alla conoscenza della storia, materia solitamente bistrattata e da curare, invece, con particolare attenzione, dato che le nuove generazioni rischiano di conoscere poco e superficialmente proprio il tempo a noi più vicino, nella sua complessità e i suoi nodi irrisolti.

Ma la storia è una disciplina che ha regole esigenti da rispettare per non essere strumento di manipolazione o parzialità. Partire dallo sguardo delle vittime è sicuramente una prospettiva che allontana ogni retorica e riduzionismo ideologico. È il metodo che segue il presidente Mattarella fin dal giorno della sua elezione, quando decise di recarsi sul luogo dell’eccidio nazifascista delle Fosse ardeatine a Roma.

Riveste perciò una particolare importanza il messaggio che deciso di inviare per il 10 marzo 2020, quale garante dei valori fondanti della Repubblica, affermando senza troppi giri di parole che  il “giorno del ricordo” «contribuisce a farci rivivere una pagina tragica della nostra storia recente, per molti anni ignorata, rimossa o addirittura negata».

Matterella riconosce il valore degli esuli e dei loro discendenti, che durante molti anni seguiti alla fine del conflitto mondiale hanno saputo tener viva la memoria delle «terribili sofferenze che gli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia furono costretti a subire sotto l’occupazione dei comunisti jugoslavi». Il presidente parla della violenza estrema «che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole».

Mattarella condanna perciò ogni residua traccia di negazionismo di questi crimini, invitando a considerare le sofferenze delle «vittime di quella persecuzione, i profughi e i loro discendenti» come un «monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto e malinteso ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali della persona».

Sono queste le basi per promuovere «la pace e la collaborazione internazionale, che si fondano sul dialogo tra gli Stati e l’amicizia tra i popoli». Parole che suonano sempre più attuali con la ricomparsa inquietante di retoriche nazionaliste proprio nel cuore dell’Europa che, di solito, si dice provenire da un lungo periodo di pace ed invece, proprio sul finire del secolo scorso, nel 1999, ha vissuto la tragedia del conflitto nella ex Yugoslavia. Cioè vicino a quel “confine orientale” che racchiude “vicende complesse”, tutte ancora da esplorare, che rientrano a pieno titolo nella nostra storia nazionale.

L’Italia, infatti, deve fare ancora i conti con la follia della cosiddetta “Grande guerra” del 15 -18 e la tragedia del secondo conflitto mondiale nel quale il nostro Paese, con la dichiarazione di guerra del 1940, 80 anni fa, si rese protagonista del secolo dei genocidi e del terrore destinato inevitabilmente a colpire masse di popolazione innocente.

Mantenendo lo sguardo a partire dalle vittime rimandiamo perciò all’articolo di Giuliano Ruzzier pubblicato da cittanuova.it nel 2014 e alla ricostruzione dello storico Giovanni Sale su Civilità Cattolica del febbraio 2004.

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