Le fiamme del Trovatore

Con repliche fino al 10 marzo, a Roma torna l'opera di Verdi. Regia di Alex Ollé, direzione di Jader Bignamini

Notte e fuoco. Sono gli ingredienti di cui si serve un Verdi quarantenne, nel pieno della creatività,  per travolgere il pubblico, nel 1853 a Roma, e oggi ancora, con le “quattro parti” di un fosco dramma iperomantico. Amore, passione, gelosia al calor bianco. Gelosia, soprattutto: il sentimento che invade tutte le opere verdiane, perché è vecchio quanto l’uomo, e genera dolore e morte.

Il Trovatore è un’opera di giovani che duellano per una donna – il Conte de Luna, Manrico “il trovatore”  e Leonora – in notturni  balenanti,  amano nel buio, si combattono, si appassionano, gemono e muoiono. Vendetta e furore, amore eroico  e ardore di guerra nella Spagna del secolo quindicesimo. Su tutto incombe una figura sinistra: la zingara Azucena, in cui Verdi ripete  il “doppio” già visto in Rigoletto. Se costui era deforme esteriormente, ma internamente pieno d’amore, lei è divisa tra il desiderio di vendicare la madre arsa sul rogo dal padre del Conte (che è fratello di Manrico senza saperlo) e l’amore per Manrico stesso, che lei ha rapito da piccolo e curato come un figlio.

Situazioni estreme, romanticamente immerse in aure di terrore nei lunghi racconti dei personaggi,  in aneliti amorosi spasimanti e in dolci e tristi malinconie. Una invenzione  melodica torrenziale da capo a fondo, un’orchestra scalpitante, ma anche capace di tenerezze (violini e clarinetti in particolare) ed un quartetto di cantanti la cui voce tocca ogni corda del sentimento: la giovinezza fresca  (Mantico, tenore), la gelosia (Il Conte, baritono), l’amore eroico (Leonora, soprano), la follia (Azucena, mezzosoprano).  Verdi usa le forme tradizionali dell’opera  (aria  e cabaletta per ciascun protagonista, concertati, cori a inizio d’atto, duetti…), ma le travolge e le rinnova dal di dentro grazie ad una forza che è virilità, energia, sanità. In un parola, Vita.

Di tutto questo ogni volta che il Trovatore viene presentato, sarebbe giusto tenerne conto. Il nuovo allestimento all’Opera di Roma in coproduzione con De Nationale Opera di Amsterdam e l’Opéra parigina trasporta l’azione nella prima guerra mondiale, fra trincee, fucilazioni e deportazioni, come se si fosse in una fiction televisiva. Per cui alcune perplessità risultano evidenti, osservando come talora il libretto dica una cosa e sulla scena se ne svolga – o non se ne svolga – un’altra. Comincia il coro d’inizio del III atto, “I soccorso dimandato” e non arriva nessuno, ultima scena  “Sia tratto al ceppo!” e Manrico viene ucciso da un colpo di pistola come la zingara, ma del rogo di cui tanto si parla, nessuna traccia…  La regia di Alex Ollé (La Fura dels Baus) cerca giustamente l’attualizzazione, ma non si dovrebbe dimenticare il rispetto dovuto ai capolavori, insomma forse serve un pizzico d’umiltà da parte dei registi che oggi monopolizzano l’opera.

Quanto alla parte musicale, un impegnato Jader Bignamini dirige per la prima volta il Trovatore, e si sente. Tempi diseguali, ora troppo accelerati ora troppo languidi, qualche scompaginamento tra buca e palco, cantanti  presi dalla regia dinamica, voci  interessanti (il soprano, il tenore), ma che forse andrebbero più curate.  Il Trovatore non è facile, soprattutto se l’opera è eseguita, come giustamente vuole  Bignamini, senza tagli. Comunque, tanta buona volontà e l’orchestra impegnata. Applausi del pubblico, un pienone. Repliche sino al 10 marzo.

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