Le ferriere del re
La tragedia del ponte Morandi a Genova mi ha riportato alla mente altri due ponti di cui ho tratteggiato la storia in un precedente itinerario: due magnifici esempi di architettura industriale, orgoglio del Regno delle Due Sicilie, realizzati per conto dei Borbone dall’ingegnere di origini lucane Luigi Giura (1795-1852), uno sul fiume Garigliano, al confine tra Lazio e Campania (fu il primo ponte sospeso a catenaria di ferro d’Italia e il secondo d’Europa, dopo la Gran Bretagna), l’altro nel Beneventano, sul fiume Calore. Due ponti all’avanguardia per i loro tempi sotto l’aspetto tecnico-costruttivo, che all’eleganza univano la sicurezza. E sicuri si dimostrarono malgrado lo scetticismo degli stessi ministri borbonici e le catastrofiche previsioni sia dei francesi, che avevano visto crollare il loro ponte pensile in ferro sulla Senna, sia degli inglesi, costretti a chiudere per difetti di stabilità un’opera analoga a Londra.
In effetti il grande problema era la flessibilità della lega ferrosa usata all’epoca, che rendeva tali manufatti oscillanti ai grossi pesi e al forte vento. Come riuscì Giura a risolvere questo problema cruciale? Con l’appoggio di Francesco I (il “re Bomba”) il geniale ingegnere, per aumentare la resistenza del ferro dolce da utilizzare, fece produrre una lega al nichel; e le travi così composte rinforzò con trafilamento mediante un congegno di sua invenzione. Questo duplice trattamento, chimico e meccanico, conferì al materiale caratteristiche di resistenza alla corrosione e all’invecchiamento impensabili per quei tempi. Inaugurati rispettivamente nel 1832 e nel 1835, i due ponti gemelli resistettero bravamente fino al 1943, quando vennero fatti saltare con le mine dai tedeschi in risalita verso il Nord. Oggi entrambi sono stati ricostruiti, ma solo quello sul Garigliano è identico all’originale.
Quanto al sito che rese possibili queste meraviglie dell’ingegneria, il nostro itinerario ci trasporta sulle Serre calabresi dove abbondavano gli elementi indispensabili alla produzione del ferro: il legno dei boschi, le acque dei torrenti e ben trentacinque miniere tra cui alcune note fin dai tempi della Magna Grecia. Qui nel 1768, sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone e in aggiunta a quelle di Stilo, sorsero le Reali ferriere ed officine di Mongiana, entrate a regime dieci anni dopo quale impianto base per la produzione di materiali e semilavorati ferrosi da rifinire sia in loco, sia presso l’altro polo siderurgico di Pietrarsa, presso Portici. Attorno ad esse si costituì un villaggio di oltre mille abitanti con alloggi per operai, artigiani e dirigenti, con presidio militare, chiesa e cimitero; villaggio divenuto comune autonomo con regio decreto del 1852.
Il complesso era adibito prevalentemente alla produzione bellica (cannoni, munizioni e fucili – il famoso fucile da fanteria modello “Mongiana”), ma attivo anche nel campo navale e civile: è il caso appunto dei componenti metallici per i due ponti citati. Qui si fabbricarono utensili, si coniarono monete, si produsse ghisa di qualità che non temeva confronti con quella prodotta in Inghilterra. Da qui uscirono anche le rotaie della prima tratta ferroviaria italiana Napoli-Portici (1839).
Tra i primati assoluti per l’epoca, le ferriere di Mongiana potevano vantare il ridotto numero di ore lavorative (otto in miniera e dieci in fonderia), l’esclusione dal lavoro di donne e minori, un illuminato decreto di tutela del patrimonio boschivo che assicurava l’equilibrio tra consumo di legname e riproduzione arborea spontanea.
Potenziate e costantemente migliorate con le più moderne tecnologie importate nel regno dai vari distretti minerari e siderurgici d’Europa, furono motivo di crescita e sviluppo per l’intera zona, arrivando nel 1860 a dare lavoro a circa 1500 operai. Purtroppo, travolte dalle vicende legate al processo di unificazione politica della Penisola, furono messe in secondo piano dal governo sabaudo che privilegiò le sue industrie, molto meno sviluppate. Rapido, quindi, fu il declino dell’opificio calabro, fino alla cessazione delle attività e alla vendita degli stabilimenti nel 1874, con gravissime ripercussioni per l’economia locale. Per sopravvivere, gli operai specializzati mongianesi dovettero emigrare al Nord.
E oggi? Fino al febbraio 2016, questo glorioso complesso immerso nella suggestiva cornice naturalistica del Parco Nazionale delle Serre era ridotto allo stato di rudere. A partire da quella data però, per impulso dell’amministrazione comunale di Mongiana guidata dal sindaco Bruno Iorfida, ha preso il via un progetto europeo di valorizzazione mirato, in particolare, allo sviluppo di un turismo culturale.
Insperati i risultati dei primi scavi archeologici. Fra l’altro sono state rimesse in luce, nella fonderia, strutture che si ritenevano scomparse come i tre altiforni intitolati ai santi Barbara, Ferdinando e Francesco. Il percorso di visita, che comprende la ferriera Robinson con i resti del laminatoio, l’area del Cubilot (il forno a cupola impiegato per fondere la ghisa) e alcuni ambienti riferibili a magazzini, depositi e officine, ha come punto di partenza la restaurata fabbrica d’armi caratterizzata all’ingresso da due colonne doriche in ghisa, unica testimonianza dell’alto grado ottenuto, in Calabria, nella tecnica di fusione.
In questo edificio neoclassico ha trovato posto il “Mufar”, un museo all’avanguardia per lo studio del periodo borbonico, del decennio di governo francese di Murat e dell’archeologia industriale. Attraverso un coinvolgente sistema di rappresentazione multimediale, il visitatore è invitato a ripercorrere le alterne vicende degli operai con il loro legame col territorio e a prendere visione di tutto ciò che rappresentò Mongiana in ambito europeo, nell’arco di poco più di un secolo: un modello avanzato di fruizione, valorizzazione e gestione che ha scritto una pagina innovativa nella storia industriale del nostro continente.