Le due facce del redditometro
La domanda che molti cittadini si sono posti dinanzi alle notizie diffuse dai mass-media in questi giorni è se – e in che modo – i loro redditi possano essere oggetto di accertamento da parte dello Stato (nella specie l’Agenzia delle entrate) a fronte delle spese sostenute, e se a quello strumento noto con la parolona di "redditometro" possa essere opposta una qualche misura di preservazione dal rischio di un accertamento.
Beh, alla prima domanda la risposta è semplice e scontata: certamente sì. L’Agenzia delle entrate ha potere e dovere di controllo dei redditi dichiarati da ogni cittadino, tutti ben lo sappiamo; anzi, gli accertamenti che essa svolge possono essere fondati anche su procedimenti cosiddetti "induttivi", vale a dire basati sulla entità delle spese sostenute dal cittadino/contribuente per i consumi più diversi (abitazioni, energia, ecc..) o magari facendo ricorso a parametri predefiniti in grado di poter evidenziare la capacità contributiva. Il principio è semplice: più spendi, più si presume che il tuo reddito debba essere conforme al livello di spesa. Certo potrai anche dimostrare – dice il fisco – che abbia appreso le disponibilità finanziarie per effettuare quella o quelle spese in altro modo, ad esempio attingendo a un prestito dei tuoi genitori; ma in ogni caso dovrai tu fornirmi la prova di questa circostanza. Io (fisco) intanto – e in mancanza di quella diversa prova – stabilisco che il tuo reddito sia "tot" e su questo sarai chiamato a versare le tue imposte: è questa, con qualche approssimazione, la filosofia del redditometro.
Dinanzi a tale disarmante semplicità di ragionamento sembrerebbe che il cittadino non possa fare nulla e solo accettare supinamente l’applicazione dei criteri induttivi per sapere quale sia la sua sentenza… fiscale.
Ed invece ecco la contromossa del fisco: viene pensato uno strumento (e da quest’anno più raffinato rispetto ad altri tempi) con il quale il cittadino dovrebbe, meglio potrebbe (essendo l’utilizzo facoltativo) determinare da solo se, in base alle spese sostenute, il reddito da lui prodotto sia quello coerente (cioè adeguato ai parametri di cui si diceva e al riparo da rischio accertamento) o incoerente: il “redditest”.
Si tratta di un programma messo a disposizione dall’Agenzia delle entrate sul suo sito (scaricabile gratuitamente all’indirizzo http://redditest.agenziaentrate.it/) che dovrebbe consentire ad ogni cittadino di fare una sorta di autodiagnosi della sua complessiva situazione reddituale (indicando le spese sostenute per i consumi più diversi, quali per abitazioni, mezzi di trasporto, assicurazioni e contributi, tempo libero e cura della persona ecc..) e trarne così il convincimento (segnale verde se coerente e segnale rosso se incoerente) circa un eventuale rischio di accertamento da parte del fisco. Questo a sua volta garantisce l’assoluta segretezza dei dati indicati che restano memorizzati solo sul computer del cittadino.
Ma il condizionale è d’obbligo.
A parte la difficoltà, non proprio irrilevante, di compilazione del test (molto spesso i dati richiesti – abbastanza numerosi – sono di ardua reperibilità e in ogni caso si devono riferire a tutti componenti del nucleo familiare con notevole dispendio di tempo per i nuclei più numerosi), non sempre dai dati inseriti ne viene fuori una fotografia reale della capacità contributiva del cittadino: si è calcolato che dalla imputazione ad una determinata voce (ad esempio per acquisto gioielli) piuttosto che ad altra (ad esempio viaggi di piacere), ne potrebbe derivare nel primo caso un giudizio di coerenza e nel secondo di incoerenza.
Inoltre non è escluso il rischio che l’utilizzo di questo strumento possa essere un’arma a doppio taglio, anche nei confronti del fisco stesso: calibrando infatti l’ammontare dei redditi da dichiarare sino alla "soglia" minima oltre la quale scatta l’accertamento (ma senza dichiarare tutti quelli effettivamente percepiti), il contribuente sarebbe al riparo da contestazioni da parte del fisco, ma certamente non sarebbe stato reso un buon servizio alla verità oggettiva dei fatti e dei rapporti tra fisco e cittadino, inducendo questi a dichiarazioni non veritiere.
Infine pare che il redditometro (e il rimedio costituito dal test autodiagnostico) si riferiscano ai redditi degli anni d’imposta successivi al 2009 e non solo all’ultimo appena concluso, e quindi operino in via retroattiva: in ciò determinandosi un’aperta violazione di un principio base contenuto nello Statuto del contribuente, per il quale le norme fiscali non possono valere che per l’avvenire.
Insomma torna in ballo un’annosa questione: nel rapporto tra fisco e cittadino non basta affidarsi solo ai numeri (che possono avere solo una funzione indicativa), deve entrare in gioco l’elemento fiducia e occorre consentire al contribuente (pur risultando la sua situazione reddituale incoerente con l’applicazione di certi parametri) di spiegare e giustificare anche diversamente le contraddizioni che possano verificarsi tra spese effettuate e reddito dichiarato.
Le rassicuranti parole spese da parte di Attilio Befera, massimo esponente dell’Agenzia delle entrate, circa un uso ragionevole degli strumenti appena illustrati, sembrano andare in questa direzione: ognuno (fisco e cittadino) certo percorrendo il segmento che gli compete sull’unica strada della ragionevolezza e della onestà fiscale e civile.