Le due anime di Aitmatov
Tschingis Aitmatov o – a seconda di come viene traslitterato il nome – Čyngyz Ajtmatov (1928-2008) è una delle figure di massimo spicco mai espresse dal popolo kirghiso. Quando aveva appena dieci anni rimase orfano del padre, caduto vittima delle grandi purghe staliniane. Ministro di Gorbačëv durante la Perestrojka, poi ambasciatore del Kirghizistan in Lussemburgo e in Belgio, si prodigò presso sedi prestigiose come Onu, Cee e Unesco a favore delle minoranze etniche.
Se, come politico, è annoverato fra i pionieri dell’ambientalismo e del pacifismo negli anni Cinquanta, come scrittore ha cercato di fondere due culture: quella delle tradizioni della propria terra assimilate dalla nonna e quella sovietica che ha imposto nuove leggi ad un popolo di contadini e pastori profondamente legato alla terra e refrattario a qualsiasi innovazione. Sono entrambe palesi, nell’opera letteraria di Aitmatov, queste anime, predominando la prima.
Trentenne, Aitmatov si impose all’attenzione del pubblico russo e internazionale con Melodia della terra del 1958. Ambientato in un piccolo villaggio della Kirghisia, questo primo romanzo s’impernia sulla vicenda di Giamilja, una ragazza splendida ma anche ruvida, tenace, ribelle. Suo marito Sadyk presta servizio militare al fronte, ma nelle lettere spedite ai familiari le riserva pochissime attenzioni, sembra quasi averla dimenticata. Danijar invece, un uomo timido e un po’ ombroso che dal fronte ha appena fatto ritorno a causa di una ferita, si innamora perdutamente di lei.
Man mano che il loro amore affiora e prende il volo, in Seit, il giovanissimo cognato di Giamilja che avverte tutta la forza di quell’attrazione, sboccia un desiderio incontenibile, rivelatore di una vocazione artistica: «Danijar le aveva fatto omaggio di tutto l’immenso amore della terra natia che aveva generato in lui quella musica ispirata; cantava per Giamilja, cantava lei. La stessa misteriosa emozione che sempre mi veniva dalle canzoni di Danijar s’impadronì di nuovo di me. E improvvisamente mi divenne chiaro ciò che volevo. Volevo dipingerli». In questa parabola piena di echi rurali, di sapori mediorientali, permeata dalla potenza e dalla purezza del canto, amore, bellezza e vocazione artistica trovano una rappresentazione semplice ed esemplare, di intensa suggestione.
Con Il battello bianco, che al suo apparire nel 1970 suscitò vivaci discussioni in patria, Aitmatov veniva definitivamente consacrato come uno dei letterati russi più ascoltati e autorevoli. Considerato il suo capolavoro, è anch’esso ambientato in Kirghisia.
Tra magnifiche montagne, c’è un posto di guardia, un pugno di case affacciate su un torrente. Ci abitano tre famiglie e un unico bambino rimasto senza genitori, affidato alle cure di nonno Momun, la bontà personificata e ineguagliabile narratore di antiche leggende. Come quella di una grande cerva bianca dalle ramose corna, causa di salvezza per un’intera stirpe. Protagonista di questo racconto è proprio il bambino, al quale volutamente l’autore non dà un nome perché chiunque possa identificarsi in lui. Egli parla con i sassi, le cose, la cartella di cui va fiero, il binocolo col quale, dall’alto del Monte Sentinella, assiste al passaggio, ogni sera, di un battello bianco, sul quale immagina il padre tanto atteso. E sogna di tuffarsi e di trasformarsi in pesce per andargli incontro. A turbare l’armonia di questo mondo semplice e fiabesco è il rozzo Orozkul, la guardia forestale, che quando beve diventa violento e infierisce sulla moglie, colpevole di non avergli dato dei figli. Sarà Orozkul la causa della morte sia della mitica cerva bianca, tornata ad abitare quelle selve quasi a portarvi un messaggio di salvezza, sia anche del bambino, che per sfuggire alla cruda realtà introdotta dagli adulti in quello che era stato il suo Eden selvaggio si getta in acqua sulla scia del battello bianco.
Con l’impeto e la visione di un grande narratore, Aitmatov mette in scena una tragedia universale, lo scontro tra slancio vitale limpido, gioioso e meschinità greve, cieca, disperante. Romanzo dai significati profondi, dove il dolore si trasfigura in poesia, Il battello bianco è da una parte condanna senza appello verso tutto ciò che è compromesso, volgarità e, in definitiva, travestimento del male, e dall’altra invito appassionato a salvare tutto il bene che può esserci.
Entrambi i romanzi, impregnati di nostalgia, lirismo e passionalità, sono stati tradotti e apprezzati in tutto il mondo, e in Italia da Marcos y Marcos. Recente, sempre per i tipi dell’editrice milanese, è la pubblicazione de Il primo maestro, meno noto degli altri ma anch’esso con un messaggio profondo. È la storia di Djujsen, un komsomolek, un attivista imbevuto di idee leniniste, una delle quali predomina su tutte: istruire i bambini affinché diventino cittadini del futuro. E lui, poco più che analfabeta, si batte per offrire nel suo villaggio d’origine una scuola sia per maschi che per femmine, vincendo le resistenze dei contadini nei riguardi della cultura e del progresso. Se Djujsen insegna poco dal punto di vista “didattico-letterale”, fa molto da quello del saper vivere nella nuova società in formazione dopo la Rivoluzione d’ottobre. La passione che lo anima contagia Altynaj, orfana quindicenne maltrattata dagli zii, che reputano superflua per lei l’istruzione. Considerata solo forza lavoro o una sposa da vendere, la ragazza viene salvata proprio dal suo maestro, cui rimarrà in eterno legata da un sentimento che svelerà solo in vecchiaia.
Semplice, delicato, commovente, Il primo maestro immerge il lettore nell’anima e nelle tradizioni di un popolo fiero, che delle vaste steppe kirghise e kazake, infuocate e polverose d’estate, gelide e innevate d’inverno, ha fatto il suo regno.