Le donne saudite si faranno sentire
La notizia è nota da qualche giorno: un decreto del re Salman ha concesso alle donne di guidare in territorio saudita, sia indigene che straniere. Da giugno 2018 verranno rilasciate alle saudite delle patenti al femminile, dopo un periodo di transizione e preparazione degli apparati statali della motorizzazione civile. Sulla stampa occidentale la notizia ha avuto un posto di primo piano, per il presunto crollo di un bastione millenario che rinchiudeva le donne saudite nel girone infernale dell’insignificanza. In Arabia Saudita, invece, la notizia non ha suscitato reazioni pubbliche, anche se taluni politici, come l’ambasciatore di Ryad a Washington, hanno esultato, plaudendo al provvedimento: «È il momento giusto per questo cambiamento – ha detto – perché in Arabia Saudita abbiamo una società giovane e dinamica. Le donne non avranno più bisogno di un “guardiano” per prendere la patente».
Effettivamente il decreto del re apre probabilmente una nuova fase nella storia del potente regno saudita, in cui i diritti dell’uomo e della donna saranno sempre più oggetto di rivendicazione da parte della popolazione, in un processo già conosciuto: prima le recriminazioni velate di singoli, che poi diventano pubbliche, quindi oggetto di proteste di minoranze sempre più vaste, fino alla recezione da parte del governo della richiesta e la promulgazione di leggi adeguate. Anche il decreto sulla patente alle donne non fa che recepire un movimento sociale che si sta facendo strada da tempo anche nei luoghi dove l’Islam è iniziato, considerato a tutt’oggi uno degli Stati più retrogradi al mondo in quanto a rispetto dei diritti umani. Il provvedimento, indiscutibilmente, segna una sorta di sconfitta per i religiosi wahhabiti che tanto influenzano il potere a Ryad, visto che la stragrande maggioranza di essi era contrario al decreto.
C’è tuttavia un elemento di cui poco si parla, ma che va considerato attentamente: la misura “permissiva” con tutta probabilità non è stata dettata principalmente da motivi umanitari o etici ma da ragioni economiche. Per puro esercizio mentale, immaginiamo cosa succederebbe se in un Paese come il nostro alle donne (o agli uomini, perché no?) fosse vietato d’improvviso di guidare: l’economia si bloccherebbe, e così la politica, la cultura e tutto. Chi porterebbe i bambini a scuola? Chi farebbe giungere a destinazione le derrate alimentari quotidianamente? Chi porterebbe i nostri vecchi all’ospedale? Chi guiderebbe gli autobus? Certo, il Raccordo anulare di Roma o la Tangenziale Nord di Milano si troverebbero fluide e i centri storici meno inquinati…
I governanti di Ryad hanno cioè capito che, in periodo di grave crisi economica anche nel loro regno, permettere alle donne di guidare, e quindi di avere una loro indipendenza, di intraprendere, di far girare le macchine assistenziali e educative, di poter lavorare con maggior libertà, può fungere da volano per una poderosa inversione di tendenza congiunturale, avviando una reale ripresa economica, non più basata solo sul petrolio e sul gas, ma anche su un’economia produttiva più equilibrata. Chi ci rimetterà saranno probabilmente i numerosissimi autisti stranieri – bengalesi, filippini, indiani… – che oggi guidano al posto delle donne.
Certamente non va sottovalutato l’aspetto culturale: questa piccola libertà supplementare data alle donne inevitabilmente porterà come conseguenza altre richieste di maggior partecipazione alla vita familiare, sociale e, perché no, politica. I religiosi wahhabiti, ma non solo, anche quelli meno radicali, temono una società in cui il maschio non sia più dominus absolutus, ma il fattore economico questa volta ha prevalso e sembra averli costretti sulla difensiva. I leader wahhabiti non si sa come reagiranno alla sconfitta: il sistema politico e religioso saudita è infatti estremamente misterioso, basato com’è sull’influenza dei clan dei vari personaggi della famiglia reale, che condizionano a piramide l’intera organizzazione sociale saudita. Quindi prudenza. È ancora il dio-denaro che ha dettato la sua legge. Per l’etica e i diritti umani c’è ancora tempo, in particolare per quella libertà religiosa che è un vero tabù: ai filippini che lavorano in Arabia Saudita, ad esempio, non è nemmeno concesso di pregare in un appartamento privato con simboli religiosi cristiani. Non parliamo di celebrar messa sul suolo saudita.
Quel che è certo, è che le donne faranno ancora parlare di sé, facendo emergere il ruolo di reale bilancia della società saudita che già svolgono, seppur all’interno delle famiglie e dei clan. Forgiate al duro lavoro di tessitura dei loro nuclei di vita, sapranno far valere un patrimonio immenso di umanità e determinazione. Come quella di Manal al Sharif, che nel 2011, a 32 anni d’età e appena divorziata, guidò per alcuni chilometri l’auto di famiglia, ripresa da un’amica che trasmise le immagini sulla Rete. Spopolò. Fu arrestata, perse il lavoro e fu poi costretta all’esilio in Australia senza il figlio, rimasto col padre. Manar ha reagito così, in un’intervista a la Repubblica, al decreto reale: «La monarchia vuole dimostrare che i tempi sono cambiati. Che il potere è cambiato». Vedremo.