Le donne di Campigli

A Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, sono esposte fino al 29 giugno alcune opere di Massimo Campigli. Artista poco noto, tutto da scoprire, stupisce soprattutto per la profondità dei ritratti, dove la poesia dell’artista acquista qualcosa di soave
Massimo Campigli

Dunque, il pittore celebrativo, il ricercatore di figure arcaiche, di colori bruni e di forme solide come bozzoli, è tornato. Ed è una scoperta. Veramente il tempo, così come seppellisce tante cose inutili, fa riemergere tesori nascosti. Morto a 76 anni nel 1971, Massimo Campigli per il grande pubblico è artista poco noto. La rassegna alla Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo – aperta fino al 29 giugno – rende giustizia a un pittore e a un intellettuale vivo dal Ventennio fascista fino agli anni Sessanta. “Rimosso” da certa critica perché operante nel Ventennio, ora torna alla luce.

Diciamolo subito che forse le sue opere più belle, più degli affreschi immensi alle Università – Padova e Roma –, oltre le tele  femminili “etrusche” a gruppi, con quei corpi tondeggianti, larghi e geometrici, e quelle tinte chiare o mattonate, sono i ritratti. Qui la poesia dell’artista acquista qualcosa di soave. Tempera la geometricità dei volti, la fissità degli sguardi, l’assenza prospettica in favore di un linearismo puro che rende astratte le figure, inaccessibili anche se vorrebbero parere vicine. Ne sfogliamo alcuni.

Il ritratto di Curzio Malaparte, scrittore amico, narra una dolcezza ignota forse allo stesso personaggio, che si accampa a mezzo busto davanti a un fondo chiaro pastoso, libero da ogni aggressività, quasi “buono”. La famiglia dell’architetto Ponti  (1934) si staglia come i rilievi funebri dell’antica Roma, immobile, ma è priva della loro aura di  morte, perché i visi sono sinceri, con quell’ombra di malinconia della moglie che va a pensieri lontanissimi. Il colore è tenue. Ci sono poi le apparizioni luminose della vita, la bambina Nicoletta Pallini (1949), grandi occhi aperti che pare circonfusa d’oro; e la Giuditta del ’44, bella come un ritratto di El Fayum.

C’è, straordinario, il ritratto di Olga Capogrossi del 1960, forse il brano più stringente della rassegna. Due occhi cerulei, di una trasparenza marina, un viso roseo, un collo alto: il primo piano di una bellezza novecentesca che ha dentro la classicità, ha la malia di un sogno.

Magico come la bellezza che non muore mai ma sempre si rinnova, il quadro è un canto d’amore, una poesia della donna come luogo della più misteriosa, affascinante “femminilità”. Quell’insieme di cose, mosse, affetti, pensieri che si esprimono in una naturalezza armoniosa, oggi così rara e perduta.

Se non altro, questa rassegna la fa riscoprire, ridesiderare, per ritrovare sé stessi e non perdersi. Campigli, avesse dipinto solo questo, sarebbe comunque stato un grande.

"Campigli, il Novecento antico" (cat. Silvana editoriale).

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