Le domande di Dio

 

Nel mese di marzo scorso, mons. Daniel Libanori, vescovo ausiliare di Roma per il settore centrale, ha inviato una lettera ai suoi parroci che è stata pubblicata da Civiltà Cattolica. È un testo intenso, con un grande contenuto di saggezza. In me ha provocato molteplici riflessioni.
Una delle cose che mi ha colpito di più è ciò che dice sulle domande di Dio.

In tempi come quelli che viviamo, di solito rivolgiamo noi delle domande a Dio: «Perché tanta sofferenza? Perché non parli? Perché non agisci?». Facendo così, chiudiamo l’udito alle sue domande, che sono il volto dei morti e dei malati, l’abbandono degli anziani, le disuguaglianze lancinanti, la povertà cronica di alcuni settori sociali, l’orgoglio del progresso tecnico e materiale, la corruzione, il delirio morale. Queste sono le domande di Dio. Dio, quindi, non è silenzioso. Al contrario, ci sta parlando. E agisce attraverso coloro che lo ascoltano e si muovono, fanno qualcosa impegnandosi, consolando, lavorando, donandosi.

Dio ci invita – afferma mons. Libanori – a pensare in modo diverso e più profondo; anzi, ci incoraggia ad avere il pensiero di Cristo, e un unico sapere: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2, 2). Questo sembra, per un cristiano, l’unico annuncio oggi possibile, l’unico all’altezza dei tempi. Il mondo ha bisogno di ascoltare un messaggio serio e non esortazioni edulcorate, facilmente assimilabili da una società priva di tensione spirituale.

Una parte magnifica della lettera è quella dedicata alla Torre di Babele (Gen 11.4ss): «Secondo il racconto biblico, gli uomini sono rappresentati in modo simile agli schiavi ebrei in Egitto. Qui costruiscono mattoni per costruire la torre, non sono stati costretti, come i figli di Abramo, decidono da soli. Il progetto per il quale lavorano si riferisce alla costruzione di una torre per “farsi un nome”, cioè per darsi la stabilità di un sistema ben articolato ed efficiente. Gli uomini parlano la stessa lingua e concordano su un progetto; si percepisce che non è un popolo ma una massa: la diversità è stata sacrificata a favore dell’uniformità. L’unità per sentirsi al sicuro è ricercata nell’omologazione, non nella comunione. Con il crollo della torre, gli uomini vengono riportati al limite strutturale della condizione umana, ma anche a originalità soggettive. Perdendo l’unità al prezzo della sottomissione a una singola cultura (lingua, progetto), possono riguadagnare le loro differenze e ricchezza e lo spazio di libertà. Gli uomini potranno trovare sicurezza non nella sottomissione, ma nell’alleanza tra loro».

Per l’autore, quell’impresa (la costruzione della torre) è il programma del progresso tecno-scientifico delle società occidentali, con le essenziali servitù dei sistemi politici e finanziari. L’impresa, la “torre”, potrebbe anche essere – a mio avviso – il progetto globale diretto dai poteri egemonici del mondo che ci impone un unico modo di pensare e vivere.

Ebbene, quella magnifica costruzione è improvvisamente crollata, o almeno ha mostrato tutti i suoi difetti. È un’opportunità unica per l’alleanza, la comunione e una vera unità nella diversità e nella dignità; senza emarginati o esclusi, senza poteri egemonici, invisibili ma letali. È un Kairos da non perdere.

Il vescovo Libanori, verso la fine della lettera, afferma che nella prova i pensieri dei cuori vengono delineati e rivelati. Di quei pensieri abbiamo bisogno più che mai. Nascono da una fede purificata nel processo. Quella di tutti noi in questo tempo. La fede del semplice, del povero, di così tante persone che ci lasciano la pelle giorno dopo giorno senza fare rumore. I pensieri del cuore sono la saggezza che deriva dall’amore vissuto e condiviso.

Adesso che ci addentriamo nella cosiddetta “normalità”, conviene non dimenticare le domande di Dio. Esse ci mantengono allerta, non permettono che ci accomodiamo, impediscono ciò che sarebbe una vera catastrofe nella catastrofe: tornare a vivere come prima, come se niente fosse successo.

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