Le dimissioni di Bossi

Dimissioni-lampo del capo carismatico. Si aprono interrogativi sulla successione e sulle idealità del movimento leghista
Umberto Bossi

Il gesto delle dimissioni quasi immediate, dall’esplosione dello scandalo finanziario che ha investito il movimento, dice il legame di paternità-figliolanza tra Umberto Bossi e la Lega Nord: è il gesto del padre che si sacrifica per la vita del figlio, restituendo così una decadente grandezza, non priva di venatura tragica, all’anziano leader. Ma purtroppo il confine privatistico della relazione Bossi-Lega non era tutto così nobile: saltano fuori spregiudicati usi del denaro proveniente dal finanziamento pubblico a beneficio della sua famiglia e di ogni suo componente. In più, l’intera gestione amministrativa e finanziaria è sotto accusa, con ombre anche riguardo il reperimento di ulteriori fondi, e il coinvolgimento dei vertici in questi casi è inesorabile.

“Questo” vertice però è del tutto particolare. Esso infatti è fortemente monocratico,  presenta i connotati tipici del potere assoluto appannaggio del fondatore, per cui la Lega Nord, nell’esercizio scientifico di individuazione dell’ideal-tipo di riferimento, è senz’altro classificata tra i partiti o movimenti politici “carismatici”. Bossi per la Lega Nord, quindi, così come lo è Berlusconi per il Pdl, è una figura semplicemente e radicalmente insostituibile. Si accende quindi sulla Lega, come già sul Pdl, l’interesse politico (ma anche accademico) per le sorti cui va incontro un movimento a vasto consenso quando si spegne la leadership del capo indiscusso.

Da questo punto di vista, non è indifferente il modo in cui il capo già carismatico cessa di essere capo. Un’uscita di scena fisiologica aiuta certo di più a mantenerne viva la funzione di riferimento morale, che di per sé non teme neppure la morte fisica; un’uscita di scena precipitata, invece, rischia di preparare il terreno alla lotta dei lunghi coltelli. Comunque sia, mette a dura prova il consenso elettorale e la capacità di trasformarsi in classe dirigente delle figure cresciute all’ombra del capo.

Nella Lega si profila già da tempo la successione di Bossi nella persona di Maroni, ma non si può dare nulla per scontato. È troppo difficile infatti il compito di Maroni: ricomporre la stessa granitica (a volte acritica) adesione all’indirizzo del vertice che Bossi era capace di coagulare, senza se e senza ma, è impossibile e non è auspicabile. Al contrario, il successore di Bossi dovrebbe aspirare alla evoluzione del movimento costruendone democraticamente il consenso, e quindi abbandonando certe parole d’ordine che fanno presto ad attrarre proseliti ma che non possono più condurre lontano. Dell’epoca di Bossi bisogna infatti tesaurizzare al massimo i fallimenti, quelli politici, naturalmente. Se nessuno degli obiettivi per i quali la Lega è nata è stato davvero raggiunto, forse ci si deve interrogare a fondo e domandarsi cosa ci fosse in essi di antistorico.

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