Coronavirus, le difficili scelte dei medici
Il 30 aprile l’Istat diffonderà i dati sulla mortalità generale in Italia, che ci aiuteranno a scoprire i veri numeri dei decessi provocati dal Covid 19 nel nostro Paese. I comunicati ufficiali pubblicati dalla Protezione civile parlano di 420 nuovi morti, per complessive 26.384 vittime: come se fossero deceduti tutti gli abitanti di città come Sondrio o Isernia. Una tragedia.
Eppure, la verità potrebbe essere ben diversa. Ancora più grave. Secondo uno studio condotto da un gruppo di scienziati e pubblicato da Repubblica, i morti per coronavirus potrebbero essere 10 mila in più, oltre 35 mila, quanti gli abitanti di Aosta o di Nuoro. Anche altri Paesi europei, come la Francia e la Spagna, hanno superato i 20 mila morti. Non la Germania, dove i decessi sono circa 5.500. Secondi gli esperti potrebbe aver inciso l’alto numero di posti di terapia intensiva. In Germania sono circa 28 mila, in Italia circa 6 mila, in Spagna 4 mila, in Francia 5 mila.
Circa la metà delle morti per Covid 19 è avvenuta nelle residenze per anziani, anche se in molti casi non sono state attribuite al coronavirus. A tutti i governi toccherà rifare i conti al rialzo.
Fortunatamente, in Italia il numero dei contagi continua a diminuire. Il totale delle persone che hanno contratto il Covid 19 è di 195.351, quelli attualmente positivi sono 105.847, mentre le persone in ospedale pur essendo ancora tante (21.533 ricoverate con sintomi e 2.173 in terapia intensiva), sono comunque in costante diminuzione.
Adesso che si sta allentando la tensione, si sta cominciando a capire cos’è stata davvero questa pandemia, che si è abbattuta come un’ascia sulle famiglie devastandole, facendo esplodere gli ospedali e costringendo il personale sanitario a turnazioni impossibili e scelte insostenibili. Ora, molti di quegli stessi medici e infermieri stanno fortemente risentendo psicologicamente dello stress vissuto, facendo in vari casi ricorso all’assistenza di specialisti per uscire dalla condizione di burn-out in cui rischiano di cadere.
La denuncia degli anestesisti, agli inizi della pandemia nel nostro Paese, del resto, parlava chiaro: se le condizioni di lavoro non fossero cambiate, i medici sarebbero stati costretti a scegliere chi salvare. A livello ufficiale, le istituzioni ancora stentano ad ammettere che sia stata compiuta una scelta di questo tipo. Nella realtà, tuttavia, la situazione per chi aveva un respiratore e decine di malati da curare era chiarissima.
Un medico della Lombardia nei giorni dell’emergenza spiegava amareggiato che, secondo le indicazioni di massima nel suo ospedale, avrebbero dovuto scegliere chi intubare, privilegiando i giovani e le persone con minori patologie. Difficilmente avrebbero intubato persone con più di 60 anni.
Una dottoressa in prima linea in un reparto Covid 19 del Nord Est ha parlato ai colleghi della difficoltà di svolgere il proprio lavoro in condizioni di emergenza. Mancavano i ventilatori e altre strumentazioni, e lei stessa si è trovata a scegliere se dare la terapia a un 59enne o un 61enne. Una scelta devastante, che avevano lasciato a lei, ma che la dottoressa ha deciso di condividere almeno con un superiore. Non si può prendere la vita umana alla leggera. E alla fine è stato scelto il 59enne.
Le difficoltà operative hanno riguardato anche il lavoro di équipe. Nei reparti Covid 19 sono confluiti i ventilatori e il personale degli altri reparti, con gravi conseguenze per chi soffriva di patologie diverse dal coronavirus. Non è stato semplice nemmeno lavorare nei nuovi gruppi che si sono formati, con persone che non si conoscevano, non abituate a lavorare insieme, con specializzazioni completamente diverse da quelle richieste per la cura del coronavirus.
Per lunghe settimane, poi, in molte strutture sono mancate − e in alcune strutture mancano ancora, compresi i medici, ad esempio in Piemonte − le mascherine, le tute e gli altri dispositivi di protezione individuale. Quelli che c’erano si usavano nei reparti Covid, anche se il personale girava e poteva infettare altre persone. Con i tragici risultati che conosciamo.
Nemmeno a molti medici, infermieri e operatori sanitari che cambiano e accudiscono i malati sono stati fatti i tamponi. Qualcuno ha denunciato che i test c’erano per i calciatori e per le loro fidanzate, ma mancavano per chi ogni giorno rischiava la vita a contatto col coronavirus. La vita propria e dei propri familiari. Ci sono stati medici messi in quarantena e separati dai coniugi e dai figli, anche piccolissimi, con profonde lacerazioni. Poi, mentre l’emergenza avanzava, sono saltate anche le quarantene, anche se gli operatori sanitari tossivano e avevano più di un sintomo del Covid 19.
E ci sono state le morti, tante, tantissime! Senza un parente, senza un fiore, senza la benedizione di un prete. Anche qui è stato il personale medico a sopperire, in tanti casi, all’ultimo saluto, prestando smartphone e tablet o avviando raccolte fondi per acquistare appositi dispositivi. Tanti hanno fatto il segno della croce ai moribondi, benedicendo anche da laici, in qualche caso, chi stava per lasciare questo mondo.
Non è stato certamente tutto negativo in quanto è successo nelle corsie, per fortuna. Sono stati avviati nuovi e più intensi rapporti medici, c’è stata una grandissima solidarietà, c’è stato un impegno profondo di tanti specialisti e di tanti operatori sanitari, che erano quelli più vicini ai ricoverati. Ci sono state poi le nuove assunzioni, tanto entusiasmo arrivato in corsia, nuova linfa per ossigenare strutture che avevano visto anche medici e operatori uccisi dal coronavirus.
La pandemia ci ha colpiti profondamente, molto più di quanto ci rendiamo conto. Ogni bilancio è ancora parziale, ma la consapevolezza delle tragedie vissute può essere un’opportunità per riavvicinarci tutti. Molti hanno perso persone care senza poterle salutare, anche se non avevano il coronavirus. La morte, ancora una volta, è stata uguale per tutti.