Le democrazie liberali e la nuova globalizzazione

Come sta cambiando l’interdipendenza tra le economie dei diversi Paesi e le conseguenze sul mondo del lavoro. Il parere di Giuseppe Sabella, direttore del think tank Oikonova
Globalizzazione e finanza AP Photo/Ahn Young-joon)

Guerra e pandemia hanno fatto emergere una forte novità nei rapporti economici internazionali, con cambiamenti che incidono sull’economia e quindi il lavoro. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova, think tank specializzato in lavoro e sviluppo sostenibile. Un “pensatoio” favorevole alla cultura del libero mercato di stampo occidentale come emerge dalle pubblicazioni di Sabella, ad esempio nei libri “Società aperta e lavoro” (con Giulio Giorello, Cantagalli 2019) e “Ripartenza verde. Industria e globalizzazione ai tempi del covid” (Rubbettino 2020).

Come sta cambiando la globalizzazione a suo parere?
È visione da anni piuttosto condivisa dagli studiosi – e ora anche dagli attori economici e finanziari – che, in particolare dopo la pandemia e ora con la guerra, la globalizzazione si stia sdoppiando. Non a caso utilizziamo il termine “decoupling” per descrivere questo fenomeno che sta a indicare – appunto – sdoppiamento, disaccoppiamento delle catene del valore: è la fine della globalizzazione intesa come interdipendenza multilaterale – in senso tecnologico, economico e finanziario – e l’inizio di una fase più orientata alla macro-regionalizzazione delle economie. Per questo, la piattaforma occidentale e quella asiatica sono sempre più contrapposte. Ed è contrapposizione destinata a crescere. Ecco perché Putin e Xi Jinping – nel loro differente atteggiamento espansivo – continuano a parlare della crisi delle democrazie liberali, nonostante le autocrazie abbiano più problemi di noi.

Come dovrebbero reagire le democrazie occidentali?
Credo che solo con un grande sforzo collettivo – e quindi anche del capitale – le democrazie liberali potranno allontanare la minaccia che viene da Est e che punta a sostituirne l’egemonia nel mondo. Nel nostro mondo non va tutto bene, non funziona tutto come dovrebbe e le contraddizioni sono tante. Ma i diritti sociali e le libertà di cui abbiamo goduto sino a oggi, sono naturalmente figlie del predominio delle democrazie, in particolare di USA e GB. Se questo equilibrio dovesse cambiare a vantaggio delle autocrazie, nulla sarà più come prima per noi. Ecco perché l’Occidente oggi sta facendo uno sforzo considerevole per non perdere la sua egemonia che, tuttavia, è molto cambiata negli ultimi 20 anni per effetto della crescita mostruosa della Cina.

Quali politiche sono state adottate?
Se guardiamo, per esempio, a cosa sta avvenendo negli USA e in Europa – al di là delle scelte delle banche centrali di rivedere i tassi per controllare l’inflazione – l’impegno dei governi sul piano delle politiche economiche è molto forte. Gli USA fecero qualcosa di simile dopo la crisi del 2008, per l’Europa questa fase segna invece il passaggio dall’austerity alle politiche espansive. Tutto questo è necessario perché altrimenti il sistema crolla, ma non è sufficiente. C’è anche una direttiva europea che vuole rafforzare le retribuzioni più basse e un intento politico di avviare una crescita del potere d’acquisto, ma è questo un processo lento, per quanto inevitabile, in una stagione che sarà segnata dall’inflazione. E non sarà la leva fiscale a risolvere la situazione.

Nell’ultima intervista a Rainews, a proposito della necessità di tassare i capitali per distribuire ricchezza lei ha risposto, con realismo, affermando che tali poteri (quelli della finanza, cioè) sono più forti di quello politico e che comunque i grandi capitali trovano riparo nei paradisi fiscali dove sono intoccabili anche per la protezione che ricevono da alcune istituzioni come la Borsa di Londra. Non ci troviamo in un sistema che rende impensabili politiche pubbliche di redistribuzione?
Ritengo necessario che in questo scenario – dove il lavoro soffre e la politica risponde per come può – anche il capitale faccia la sua parte. Sono 30 anni ormai che il capitale cerca guadagni facili in Cina e nella rendita finanziaria. Il capitale deve tornare a concepirsi come attore sociale, come peraltro è al netto della sua fisiologica voracità. Bisogna indirizzare gli investimenti in una prospettiva comunitaria, per generare lavoro, creandolo però in un’ottica di innovazione sociale, di industria del futuro, di competenze che ci servono per recuperare il gap di tecnologia che l’Europa ha in particolare con USA e Cina. E, soprattutto, per avviare un ciclo all’insegna della produzione di nuova ricchezza. Nel dopoguerra è stato così. Ma perché lo si è voluto. Bisogna volerlo anche oggi.

In Italia si fa risalire al 1980 l’inizio della perdita di potere contrattuale dei lavoratori, con la cosiddetta marcia dei 40 mila di Torino che contestarono i sindacati confederali? È stato a suo parere un passaggio necessario per arrivare ad un’economia liberale di tipo occidentale?
La marcia dei 40 mila ha certamente avuto incidenza negli equilibri tra capitale e lavoro nel nostro Paese. Consideriamo che dopo i rinnovi contrattuali del ’69 e del ’73, il potere sindacale – in particolare dei metalmeccanici – era cresciuto in modo poderoso. Ma, appunto, nel 1980 – oltre alla strage di Bologna del 2 agosto che aveva scosso l’intera nazione – vi è la vicenda dei 40 mila. Stavano iniziando una serie di trasformazioni industriali molto forti e il sindacato non era pronto. La siderurgia, la petrolchimica, la navalmeccanica e in genere le industrie a partecipazione pubblica stavano andando incontro a trasformazioni profonde. Dopo la marcia dei 40 mila e la pesante sconfitta registrata dal sindacato, iniziò una fase nuova fatta di posizioni negoziali e di collaborazione in cui si gestirono le trasformazioni e le pesanti conseguenze occupazionali. Quella crisi non era infatti imputabile ai “padroni”. E il sindacato, seppur con un po’ di ritardo, lo comprese.

Di fatto non fu la vittoria del modello industriale voluto dalla Fiat di Romiti? Non ho mai avuto particolare simpatia per Cesare Romiti ma le sue parole di qualche anno dopo fotografano bene quella controversia conclusasi, inaspettatamente, con la grande manifestazione di Torino (14 ottobre) a cui presero parte 40 mila lavoratori tra capi, tecnici e impiegati, in difesa del diritto al lavoro e per rispondere ai picchetti che impedivano loro di lavorare e a uno sciopero a oltranza che durava da 35 giorni: «La svolta del 1980 – disse Romiti – fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il Paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito avevano riacquistato il diritto di esistere».

Non è stato un gran successo se andiamo a vedere oggi l’arretramento della Fiat fino alla fusione con i francesi di Psa che sono alla guida di Stellantis…

Fu proprio in quel periodo della marcia che iniziò la crisi della Fiat che non fu in grado di attraversare le turbolenze economiche e le trasformazioni in atto che naturalmente riguardavano anche il comparto dell’automobile. In particolare, il declino di Fiat iniziò proprio quando Romiti prese sotto di sé il controllo di tutto il gruppo, auto compresa. Ciò comportò l’allontanamento di Vittorio Ghidella (25 novembre 1988), il papà della Uno, che – dopo la decisione di Gianni Agnelli di preferire Romiti a lui – uscì di scena con un commento lapidario e tagliente: “Non ci si improvvisa ingegnere dell’auto a 60 anni”. Il riferimento era chiaramente a Romiti, che fino a quel momento aveva curato solo la parte finanziaria del Gruppo Fiat. Tuttavia, non so se possiamo dire che la marcia dei 40 mila ci ha condotto a essere un’economia liberale.

Quale è, quindi, il nostro modello economico?
L’Italia fa certamente parte delle economie avanzate, siamo nel G7 e quindi tra i Paesi più industrializzati. In Europa vi è un equilibrio tra capitale e lavoro che è un unicum nel mondo, che ha prodotto ricchezza, garantito libertà e, soprattutto, ha inventato il welfare state. Non saremo mai un’economia liberale come lo sono gli USA che, peraltro, dopo la crisi del 2008 si sono preoccupati di rafforzare la loro rete di protezione sociale. Sia negli USA che in Europa vi è, lo sappiamo, un fenomeno tale di disgregazione del ceto medio che chiede un rinnovamento delle politiche di giustizia sociale, al di là di quanto più o meno liberali siano le rispettive economie.

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