Le croci piantate in mare
Ancora si muore tra Africa ed Europa. Molto si è detto in questi giorni. Si aggiunge un solo interrogativo che non è stato posto – per ora – né letto su radio e giornali. Quale è il motivo per cui gli scafisti costringono circa 400 persone ad imbarcarsi su quattro gommoni con poche taniche di gasolio, senza cibo né acqua, in condizioni meteo proibitive? La Guardia Costiera che ha tentato il salvataggio ha descritto onde alte nove metri, vento a 75 chilometri orari, temperature particolarmente basse e quindi condizione proibitive per tutti: naufraghi e salvatori.
I superstiti riferiscono di essere stati costretti ad imbarcarsi sotto la minaccia della armi. Ma sicuramente gli scafisti non avrebbero sparato: avevano già deciso che i profughi dovevano morire in mare. Qualche esponente della Marina continua a farsi altre domande scomode: il numero di barche sequestrato dall’inizio di Mare nostrum è imponente e quindi siamo davvero così certi che i trafficanti possono permettersi di perdere costantemente scafi, data la difficoltà di reperimento? L’interesse di mantenere in piedi un affare lucroso come quello di esseri umani in fuga è altissimo. Le carrette del mare, negli ultimi mesi, hanno lasciato spazio ai gommoni da fiume, più economici, ma dalla chiglia instabile e quindi più pericolosi. Gli ultimi soccorsi, assieme al dolore delle vittime, recano un pesante fardello di interrogativi senza risposte.
Definire criminali tali organizzazioni degli scafisti è poco. Vogliono provocare stragi per costringere l’Europa a tornare ad un sistema che, indirettamente, agevoli i loro sporchi interessi. E sono pronti a tutto pur di raggiungere l’obiettivo, un po’ come l’ISIS che compie sequestri per estorcere soldi e uccide per reclamare visibilità e rafforzare il suo regno di terrore.
Gli Stati che stanno tentando la mediazione per frenare la guerra tra Russia e Ucraina dovrebbero, insieme ad altri, impiegare la stessa determinazione anche verso Paesi in guerra geograficamente lontani. Gli effetti delle guerre non possono non sentirsi ovunque nel mondo. Lasciare i Paesi in guerra al loro destino (anzi, alimentarlo con le “nostre” armi) è una scelta che produce nel tempo effetti devastanti anche per l’Europa. Le croci di un cimitero non possono essere piantate nel mare, ma le vediamo lo stesso, sono scolpite nell’anima e nei pensieri.
Intanto Lampedusa manifesta la sua silenziosa solidarietà con una marcia che dal centro dell’isola si è diretta al centro di prima accoglienza dove sono ricoverati i superstiti. C’è partecipazione, ma anche rassegnazione, per la prima volta, sui volti degli isolani, combattuti tra il restare crocevia di tragedie e i problemi quotidiani. Da 13 giorni le condizioni del mare rendono impossibile l’attracco della nave con i viveri e i banconi dei supermercati sono desolatamente vuoti, lo stesso per i distributori di benzina, mentre nei panifici per la farina si è accesa la spia rossa. Ma ormai non basta più nemmeno un naufragio per riaccendere i fari dei media sulla fatica dell’essere lampedusani per 365 giorni.