Le cose che verranno – L’Avenir

Un film ricco di dinamismo interiore che riesce a toccare corde così sensibili e delicate, da farci riflettere così intensamente sulla vita e suoi misteri

A volte, godendoci un film, può capitare che un personaggio ci punga e ci rimanga addosso per giorni. Può accadere che ci chiarisca un pensiero che ancora torbido ed embrionale si aggirava in noi da un po’; che ci regali una risposta che stavamo aspettando, che ci incoraggi a stare su una strada che ci piace e insieme ci spaventa. Si può estrarre questo personaggio dalla pellicola in cui vive, allora, e parlare un po’ di lui. Si può raccontarlo per ragionare un po’ su noi, in fondo. È capitato, in questa sede, con il Sully di Tom Hanks, nel film recente e omonimo di Clint Easwood, o con il Paterson di Adam Driver nel film – sempre recente e sempre omonimo – di Jim Jarmusch.

Avviene ora con la 52enne Nathalie, straordinariamente interpretata da Isabelle Huppert nel film Le cose che verranno, della francese Mia Hansen Løve, 35enne ma già matura regista. Lavenir, questo il titolo originale dell’opera, è uscito in Italia il 20 aprile scorso, e resiste ancora nelle (migliori) sale delle nostre città. Non siamo davanti, attenzione, a una pellicola dai grandi colpi di scena: non avvengono fatti di straordinaria drammaticità, ma si racconta la normale complessità di un’esistenza per certi versi comune, piena però di un pensiero vivace che dona  ricchezza del film. Colpisce l’intensità con cui Nathalie incontra e affronta i grandi temi dell’essere umano: l’amore, la morte, l’altro, la libertà, l’abbandono, lo scorrere ineluttabile del tempo, la fede in Dio. Lei ha un profondo rapporto con la filosofia: la insegna in un liceo di Parigi, la ama, è tutt’uno con essa, la incarna e la adopera con sincerità e passione per migliorare la sua vita e quella dei suoi allievi. Da giovane ha creduto che la politica potesse cambiare il mondo; ora si accontenta, si fa per dire, di aiutare i giovani a pensare con la propria testa.

Incontriamo Nathalie in una sorta di placido equilibrio esistenziale, che nel giro di poco tempo, però, si azzoppa: la casa editrice per cui pubblica i testi la liquida per produrre cose economicamente più vantaggiose; sua madre muore e suo marito le comunica di avere un’altra storia, salutandola ora che i figli sono adulti e indipendenti. Nathalie è sola, allimprovviso, e può sperimentare se i massimi pensatori di sempre sappiano sanare le ferite che la vita le ha prodotto. È obbligata a un inaspettato romanzo di formazione, e lo affronta passando necessariamente per lo sconforto e il dolore, certamente leniti dal balsamo delle potenti riflessioni umane avvenute nei secoli, attraverso le quali ha maturato una sana capacità di riconoscere e verbalizzare le emozioni, di accettare «quel dubbio e quegli interrogativi» che un sacerdote, durante il funerale di sua madre, pone in relazione con la fede. Solo che Nathalie la fede non ce l’ha, o quantomeno non comunica di possederla, e qui sta uno dei numerosi spunti di riflessione offerti da questo film ricco di dinamismo interiore.

Nella sequenza successiva allomelia, la protagonista legge ad alta voce un estratto dai “Pensieri” di Blaise Pascal: «La natura non mi offre nulla che non sia materia di dubbio e inquietudine. Se non scorgessi nulla che riveli una divinità, potrei giungere a una conclusione negativa. Se vedessi ovunque i segnali di un creatore, riposerei in pace nella fede. Ma, vedendo troppo per negare e troppo poco per essere certo, mi trovo in uno stato miserabile, in cui cento volte ho desiderato che, se c’è un Dio che la sostiene, la natura lo indicasse senza equivoco; e, se gli indizi che essa ne dà sono ingannevoli, li eliminasse completamente».

Nathalie non sa andare oltre il suo dubbio e oltre ciò che vede. Nella filosofia trova risposte preziose per suturare le ferite, ma incapaci di toglierle da dosso un vago senso di impotenza e di serena rassegnazione. Viene da pensare, allora, ai fortunati che riescono ad andare oltre i segnali della natura di cui parla Pascal; quelli che non debbono vedere per credere, ma che riescono a credere e poi vedono; quelli che hanno il dono della fede, come spesso si dice, ma anche quelli che la fede sanno conquistarla con impegno. La guarigione solo relativa di Nathalie incoraggia chi lavora costantemente per superare il dubbio, e proseguire nella ricerca di Dio. Ed è bello e prezioso quando il personaggio di un film riesce a toccare corde così sensibili e delicate, a farci riflettere così intensamente sulla vita e suoi misteri.

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