Le contraddizioni di Glasgow sono quelle del mondo
Si è appena conclusa a Glasgow la conferenza mondiale annuale sul clima organizzata in ambito ONU. Il fine era quello di contrastare efficacemente il riscaldamento globale recente di origine umana, che sta già causando conseguenze importanti con i cambiamenti climatici che produce, ormai visibili in tutto il mondo e che si amplificheranno in futuro se non agiremo con decisione e rapidità. Queste conseguenze potrebbero essere veramente gravi, con impatti molto forti sulle condizioni di vita sulla Terra.
Come è andata? In queste ore sui media si trovano giudizi contrastanti e io credo che per giudicare bene si debba innanzi tutto considerare che il metodo ONU dell’unanimismo (ogni decisione va presa all’unanimità) in un’assise di 197 Paesi non possa che far giungere ad un compromesso tra visioni ed interessi diversi. E così è successo anche a Glasgow.
Ci sono stati alcuni risultati positivi e mai raggiunti prima. Ad esempio, per la prima volta si riconosce che l’obiettivo delle azioni internazionali deve essere quello di mantenere la temperatura globale entro un aumento massimo di 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale, perché si è seguita l’indicazione della comunità scientifica che ha mostrato come ci sia una grande differenza di conseguenze negative tra questo obiettivo e quello precedente che prevedeva un aumento di 2°C (anche se già si buttava un occhio all’obiettivo attuale).
Come raggiungere questo obiettivo? Limitando le nostre emissioni di gas ad effetto serra come l’anidride carbonica ed il metano per andare verso metà di questo secolo a raggiungere emissioni nette zero. Per far ciò vanno abbandonati i combustibili fossili. E qui viene il secondo aspetto positivo del documento uscito dalla conferenza di Glasgow: per la prima volta viene citata esplicitamente la riduzione o uscita dai fossili. Ci sono stati anche accordi concreti tra diversi Paesi, per esempio sulle riduzioni di metano, che aiuterebbero molto per una stabilizzazione rapida della temperatura.
Ma ora vengono le note dolenti. Queste dichiarazioni di intenti vanno sostanziate con misure concrete. Ad esempio, il primo combustibile fossile da abbandonare è sicuramente il carbone. Ma alcuni Paesi si sono opposti, avendo la loro crescita basata proprio sul carbone. E così, con un colpo di scena finale, l’India ha preteso che nel documento finale si scrivesse di “riduzione” dell’uso del carbone e non di “abbandono” dello stesso. In questo modo anche le dichiarazioni di intenti si sono “annacquate”.
Inoltre, le misure pratiche di riduzione di emissioni messe in atto dai vari Paesi non bastano a raggiungere l’obiettivo di limitare la temperatura a 1,5°C. In questo senso, si è deciso di intraprendere un grosso lavoro di elaborazione di impegni maggiori nei prossimi due anni.
Altri punti in cui gli impegni appaiono sicuramente insufficienti sono quelli del fondo per i Paesi poveri o in via di sviluppo che i Paesi sviluppati avevano già stabilito di riempire di denaro per favorire la transizione energetica e l’adattamento dei loro territori ai cambiamenti climatici. Ma non si è ancora raggiunta la somma stabilita di 100 miliardi di dollari annui. E ancora, i Paesi del terzo mondo hanno chiesto di avere un “indennizzo” per i danni e le perdite già avute a causa dei cambiamenti climatici nati dallo sviluppo basato sul carbonio dei Paesi del primo mondo, ma questa conferenza ha stabilito soltanto l’apertura di un dialogo su questo tema.
Ci sarebbero sicuramente ulteriori dettagli sul negoziato relativo ad altri aspetti del problema, ma credo che quanto riportato fin qui basti a rendersi conto che la strada è ancora impervia e che le contraddizioni di Glasgow in realtà riflettono le contraddizioni che ci sono nel mondo. Da un lato i Paesi poveri e in via di sviluppo chiedono ai Paesi sviluppati di poter crescere per eradicare le loro sacche di povertà e di farlo con i mezzi che hanno o che possono essere loro forniti. Nel primo caso, si rischia che attuino uno sviluppo basato sul carbonio, facendo innalzare fortemente la temperatura. Dall’altro lato i Paesi ricchi promettono di attuare riduzioni di gas serra ma lo pretendono anche dagli altri, fornendo però un aiuto solo limitato.
In questo contesto, io credo che si debba riconsiderare il nostro concetto di crescita. La maggioranza dei Paesi del terzo mondo ha come modello quello della crescita economica continua dei Paesi industrializzati, un modello che inizialmente ha creato sviluppo ma che oggi mostra le sue conseguenze negative, non solo come cambiamenti climatici, ma anche in molti altri modi: con impatti sulla salute, sui rifiuti e gli scarti, sulle risorse limitate del pianeta, sulla disequità internazionale, ecc. Questo concetto di crescita e consumo continui su un pianeta finito non è sostenibile: dobbiamo effettuare una conversione a 180° e passare ad un concetto di sviluppo che porti vero benessere alle persone e al pianeta che ci ospita.
Con i negoziati sul clima cerchiamo di evitare gli impatti peggiori del riscaldamento globale, ma, come insegna papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, questo non è un problema separato da altri. Dobbiamo parlare di equità internazionale, di sviluppo armonico con la natura, di salute dell’uomo e salute del mondo. Sono questi i temi che sottendono anche il negoziato sul clima ed è per questo che è così difficile trovare un accordo globale.
Per avere successo in futuro dovremo rendere più espliciti questi problemi con le loro connessioni, e vedere lo sviluppo congiunto nostro e del pianeta sotto tutti questi aspetti: in poche parole, come espressione di una ecologia integrale.