Le contemplazioni di Riccardo Muti
Haydn, Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce. Mozart, Vesperae solemnes de Confessore k.339. Firenze, Teatro Comunale. Sublime. Soltanto da un’anima pura sgorga una melodia come il Laudate Dominum, culmine dei Vesperae mozartiani. E solo dall’unità fra direttore solisti coro e orchestra il brano appare non logorato dalla fama ma ritornato alla innocenza per un pubblico che prega con Amadeus e attraverso di lui. A 24 anni Mozart tocca il capolavoro assoluto. Riccardo Muti, che aveva avvertito prima del concerto il pubblico dei capolavori di civiltà che gli venivano trasmessi – insieme al dolore per l’attuale declino artistico del Belpaese – ha accompagnato tenerissimamente, con un tempo indugiante l’estasi contemplativa del brano, cui hanno risposto magnificamente il coro e l’orchestra, insieme al quartetto dei solisti (Valentina Farcas, soprano forse troppo delicato, Marianna Pizzolato, contralto ampio e bello, Juan Francisco Gatell, tenore leggiadro e Maurizio Lo Piccolo, basso robusto). Prima di Mozart,Muti ha proposto le esclamazioni – come lui le chiama – di Cristo in croce commentate da Haydn. A fronte di tanta musica liturgica attuale che, per essere popolare, scivola in una disarmante banalità, la musica di Haydn appare una fonte inesauribile di misura, semplicità (apparente, chè l’equilibrio interno è arduo per l’orchestra) e ispirazione. Qui i suoni sono meditazioni palpitanti sull’umanità del Cristo che piange, grida, si abbandona, e muore. Haydn fa cantare l’orchestra, scava nelle sonorità, tempera i colori e dopo un’ora di ascolto ci si sente trasformati da una ispirazione dove arte e fede sono una cosa sola. La gamma del sentimento si fa universale, ognuno si sente com-preso. È la forza dell’arte autentica. IL GOBBO A ROMA Rigoletto, di Verdi. Teatro dell’Opera. Bella l’idea dello scalone che scende dal portale albertiano e intorno a cui ruota il dramma. Cupo come la notte in cui quasi tutto si svolge. Giovanni Agostinucci (regia, scene, costumi) sente in questo modo l’opera, e lo spiega con invenzioni però discutibili: Rigoletto che sferza i cortigiani, si accompagna ad un nano dal gusto horror, il Duca che spesso beve, vomita, si rotola, spadaccini che duellano coprendo la musica… Insomma, Verdi va spiegato. Forse non basta la forza della sua musica? La compagnia di canto si trova affaticata, anche il bravo Ramon Vargas (il Duca) che non sempre riesce a cantare con il suo bel timbro morbido, o Roberto Frontali, protagonista dignitoso come Konstantin Gorny (Sparafucile) e la promettente ma troppo giovane Gilda di Olga Makarina. E se il coro canta proprio bene, l’orchestra non riesce a emergere con le sue indubbie qualità perché la direzione di Bruno Campanella sembra puntare al grigio. È vero, Verdi parla di vita e di morte. Ma ha 38 anni nel 1851 e una forza da far tremare. Con tutto il suo pessimismo, Rigoletto cela un amore tremendo alla vita. Pubblico comunque soddisfatto, sala strapiena, perché Verdi lo amano tutti.