Le confessioni di Roberto Andò
Il titolo dal libro di sant’Agostino c’entra in questo apologo politico-morale, dall’andamento di thriller, se non per il fatto che il lavoro di Roberto Andò è uno scandaglio implacabile, sottile, silenzioso, a esplorare e a far emergere il deserto dell’anima del gruppo del G8, che si convoca segretamente in un albergo sulle sponde del Baltico per una decisione di natura economica dai gravi riflessi sull’umanità.
Ospite un certosino italiano, Robert Salus, dal candido vestito, amante della solitudine, del silenzio, della natura e dei versi degli uccelli, al quale presta la sua intensa maschera facciale e corporea Toni Servillo. Il leader del gruppo, Daniel Roché (Daniel Auteuil), è un uomo cinico, sa che il denaro è il motore della politica e della vita. Una notte chiede un colloquio segreto col frate, il mattino dopo è trovato morto: omicidio o suicido? Ogni personaggio, maschile e femminile – dalla scrittrice di libri per bambini alla rockstar –, tenta un approccio col frate per carpirgli qualcosa della confessione – qualche segreto rivelatogli dal defunto –, ma è inutile anche la minaccia. In questi corridoi e stanze d’albergo, si svolgono colloqui, congiure: alla tensione del gruppo fa da contrappeso la profonda distanza morale e spirituale del monaco, un inafferrabile, dal quale si reca ciascuno: in questi confronti rapidi e serrati, ognuno emerge con la sua natura autentica.
Si tratta dell’incontro-scontro di carattere morale ma, se si vuole, anche metafisico, tra diverse concezioni dell’uomo, della società e della vita, in cui il regista analizza senza remore e senza alcuna retoricità, ma con naturalezza, il potere della suggestione del denaro e l’inerme forza della verità, impersonata dal monaco. Egli, come il Cristo del Grande inquisitore di Dostoevskij, giunge inatteso e con la sua sola presenza sconvolge i piani dei potenti.
Il film è di una stringente attualità e nel suo ritmo calmo ma costante fa della confessione lo strumento perché ciascuno si ponga davanti alla propria coscienza, se essa ancora esiste o non è stata inghiottita dal fascino del potere economico che tutto oggi condiziona. Diretto da Andò con misura, lentezza giusta, lunghi silenzi e un clima di sospensione fisica e spirituale di forte presa, il racconto scende, sullo sfondo di una natura bellissima in cui il monaco si immerge con animo pacificato, entro la lotta tra bene e male, potere e umiltà, con implicita allusione nella figura del religioso a papa Francesco.
Straordinario il cast, in particolare Auteuil e Servillo, due esempi di recitazione, di animo e di carattere a impersonare due figure contrapposte, forti e decise di fronte alle dinamiche esistenziali. Sugli schermi dal 21 aprile, una parabola dai dialoghi incisivi, da non perdere.
Il 28 aprile invece esce un altro lavoro, anch’esso, in modo più delicato e intimistico, sul tema della confessione, ovvero della presa di coscienza di sé e del proprio vissuto. Si tratta de La foresta dei sogni di Gus van Sant, in un tema che forse pochi si aspetterebbero da lui.
Arthur Brennan (Matthew McConaughey) è infelicemente sposato con Joan (Naomi Watts): un tempo si amavano, ora sono distanti l’uno dall’altro pur vivendo ancora insieme. Sconvolto dalla perdita improvvisa della moglie, Arthur decide di morire e si inoltra nella misteriosa foresta giapponese di Aokigahara, alle pendici del monte Fuji, dove la gente si nasconde a contemplare la vita e la morte. Dentro la fitta boscaglia incontra un tipo strano che ha tentato il suicidio e se n’è pentito, Takumi (Ken Watanabe).
L’uomo sta male e Arthur decide di non abbandonarlo. È qui, nel silenzio assoluto e nella più completa solitudine che lentamente si fa strada in Arthur il ricordo del passato, del rapporto con la moglie: vivendo per salvare quest’uomo, la sua coscienza si risveglia ed egli ha il coraggio di una profonda confessione su sé stesso e di sé stesso. Dolore, rimpianto, difficoltà a perdonarsi si scontrano in un lamento che non è solo di Arthur ma forse di tutti gli uomini che si trovano nel dolore di fronte a sé stessi e al non-amore.
Il film inizia con grande lentezza, quasi misteriosamente a non voler troppo svelare e poi plana in alto, cioè nell’intimo, accompagnando lo spettatore a voler anch’egli estrarre dal suo cuore una luce che pareva spenta ma è ancora viva.
Delicatissimo, con un fotografia verginale e pulita della natura, dei volti e dei corpi, questo racconto-metafora è molto bello, con tocchi di sensibilità quanto mai preziosa. Matthew McConaughey delinea un ritratto fra i migliori della carriera, teso e accorato sino alla fine di un racconto dove la morte diventa la grande “lezione” per la coscienza. Da non perdere.
In sala in questo fine settimana
Hardcore
Un videogame violentissimo, dalla storia minima di Henry, salvato dalla moglie che l’ha riportato in vita. Solo che l’uomo vede lei rapita da un folle personaggio, Akan, a capo di un gruppo di mercenari e con un piano per dominare il mondo. Un film d’azione, ipnotizzante, raccontato in prima persona attraverso il punto di vista appunto di questo cyborg di nome Henry. Se questo sia cinema, o meno, se questo sia il linguaggio futuro del cinema è arduo dirlo. Certo, la miscela di sangue, crudezza e azione è esplosiva e mette a dura prova lo spettatore, facendolo entrare nella spirale di una violenza fisica e mentale eccessiva. Diretto dal russo Ilya Naishuller è un prodotto destabilizzante e terribilmente provocatorio.
Senza lasciare traccia
Primo lungometraggio di Gianclaudio Cappa si avvale di attori come Michele Riondino e Valentina Cervi a raccontare una vicenda tristissima, girata nelle campagne del Friuli, dentro una fornace. Qui il piccolo Bruno ha subìto violenza e ne porta sulle pelle le ferite, e ancor più nell’anima. Ritorna, già cresciuto e malato, in quei luoghi, tenta una vendetta, cerca di scoprire l’origine del suo male interiore. Al di là di alcuni luoghi rivisitati e un poco di maniera – piogge, anfratti, dialoghi – il film, come primo lavoro, tenta una indagine psicologica insistente, aiutato dai lunghi silenzi e da una natura specchio delle anime e dei volti macerati. Riuscirà Bruno a scoprire la verità? Essa è ciò che appare e che uno immagina o meno? Un thriller calmo, ineluttabile e sospeso con un Riondino e una Cervi per nulla manierati.
Nemiche per la pelle
Ancora una volta siamo a Roma e ancora una volta due donne rivali per natura e per condizione – la psicologa degli animali Margherita Buy e l’imprenditrice borgatara Claudia Gerini – si sfidano a colpi di lingua e di dispetti per ottenere l’eredità del rispettivo coniuge scomparso, Paolo, che ha lasciato la prima per la seconda. Solo che l’eredità è un bambino avuto da una cinese… Se lo contendono entrambe, dimostrandosi totalmente inadeguate al ruolo di madri. Come andrà a finire? Luca Lucini ironizza sull’anaffettività di certe donne in carriera, sui figli pretesi come oggetti, e inscena quadretti ilari di litigate dove le due donne se le danno – con la lingua – di santa ragione, ma il tono rimane molto lieve, i “duetti” un po’ scontati fra le due, con la Gerini che attorialmente ne esce meglio della Buy, alle prese con il “suo” personaggio di sempre. Una strizzatina d’occhio ai “diritti civili” delle coppie femminili, un po’ ovvia ormai, non è un granché per un film che avrebbe potuto superare gli intrecci della solita commedia romana e volare più in alto, come Lucini ha fatto, ad esempio, in “Solo un padre”.
Nonno scatenato
Robert De Niro non molla. E pare proprio voler chiudere la carriera in “bruttezza”. Stavolta è un nonno appena vedovo deciso a sconvolgere il nipote bacchettone Zac Efron che sta per sposare la figlia del suo capo, nello studio in cui lavora da giovane avvocato. Zac è un ragazzo modello: bello, bravo, perfetto, obbediente al suocero, al padre e alla fidanzata. Il nonno trova una scusa e decide di fare una campagna di svezzamento verso la libertà in ogni senso. Tra sesso, feste, risse il ragazzone si sveglia, ma sopratutto i due imparano a stimarsi a vicenda. Il ritmo vivace non ci nega alcuna scorrettezza e volgarità più o meno esplicita, ma a De Niro piace “deflorarsi” così dalle sue passate glorie. Chi si ricorda ad esempio di lui, in Toro scatenato? Regia sottomessa alla grande (ex?) star di Dan Mazer.
Il libro della giungla
Il capolavoro animato di Disney del 1967 ritorna in sala, ovviamente con la straordinaria performance della tecnologia che arriva a umanizzare credibilmente gli animali e a fare del film, con il piccolo Mowgli cresciuto nella giungla, quasi una storia di amicizia felice, anche se combattuta, fra l’uomo e la natura, innocenza e perfidia (la tigre), sull’eco di un desiderio di fratellanza (?) universale. Più adatto a ragazzi e adulti che a bambini, con un lato dark risoluto, e per questo motivo simile in certo modo a un thriller avventuroso, il racconto non conosce né rallentamenti nè cedimenti – i dialoghi sono gustosi –, e punta diritto verso una seduzione visiva fascinosa. Anche se, a dire il vero, la poesia del 1967 con il suo clima di divertimento (a cui allude il remake ma con sforzo) è sommersa dalla perfezione formale degli studi di Los Angeles. Doppiatori italiani: Toni Servillo, Neri Marcorè, Violante Placido, Giovanna Mezzogiorno.