Le condizioni della pace

La leggenda ne tramanda la figura di animale a sangue freddo: preciso, metodico, morigerato; racconta degli abitanti di Königsberg che regolavano gli orologi al suo comparire per la passeggiata quotidiana. Tuttaltra idea ci si fa studiando le sue opere, davanti alla potenza di un pensiero che, per esprimersi, crea un nuovo vocabolario. E qualche contemporaneo che lo ha frequentato racconta in effetti un Kant diverso: uno che, durante una discussione, difese la rivoluzione delle colonie inglesi d’America con tanta passione, da venire sfidato a duello dal suo interlocutore britannico. E proprio la passione il filosofo prussiano è riuscito ad incanalare: all’incirca a metà della sua esistenza, non appena si rese conto di avere scoperto una nuova strada, si assegnò un compito immane da perseguire, calcolò gli anni che gli restavano, le forze (poche) che aveva a disposizione, e si impose una disciplina rigidissima, nel tentativo di dare nuove basi alla filosofia della sua epoca. Quando morì, a ottant’anni, nel 1804, ormai riconosciuto come il maggiore filosofo tedesco del tempo, non aveva più il sostegno della memoria e di quella capacità razionale al cui studio aveva dedicato la vita; eppure, nel morire, riuscì a dare un ultimo assenso dell’intelligenza: Es ist gut, va bene. I lumi e la guerra L’illuminismo – scrive Kant in Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. La minorità consiste nel non avvalersi del proprio intelletto senza la guida di un altro; e tale minorità va imputata a sé stesso, se è causata dalla mancanza di decisione e di coraggio che impediscono di cercare la verità e il bene con le sole proprie forze. Non è facile uscire dalla condizione di minorità che è diventata, in molti, quasi una seconda natura. Ma Kant non perde mai la fiducia che non solo le singole persone possano arrivare ad una vita libera e razionale, ma che anche i popoli riescano a costruire dei regimi politici illuminati e a vivere in pace fra di loro. La Natura, per Kant, ha un suo piano, e agisce in modo simile a ciò che la religione chiama Provvidenza: attraverso le scelte limitate dei singoli, si manifesta un po’ alla volta un disegno storico, che i singoli non vedono, ma che sviluppa progressivamente le potenzialità che la natura umana porta in sé stessa. Un aspetto interessante nel pensiero politico di Kant è che egli non parte affatto dall’idea che l’uomo sia, per natura, buono; lo considera, piuttosto, come caratterizzato, al proprio interno, da un conflitto fra la naturale tendenza a socializzare con gli altri, e un’altrettanto naturale e opposta tendenza a dissociarsi da essi, nella ricerca del proprio interesse. Una situazione che Kant chiama in- socievole socievolezza, e che porta all’uscita dallo stato di natura e alla costruzione della società civile: tanto il senso sociale, infatti, quanto la competizione, stimolano gli uomini e affinano le loro capacità, al punto da metterli in grado di arrivare a strutturare la società, dapprima in base alla necessità di sopravvivenza, tanto che il problema di arrivare alla costituzione di uno stato è risolvibile anche da un popolo di diavoli; ma, successivamente, anche come espressione di un legame morale fra tutti: cioè del riconoscimento, da parte di ciascuno, di una legge morale universale e di universali princìpi del diritto: nell’uomo si riscontra una disposizione morale più forte, anche se presentemente assopita, destinata a prendere un giorno il sopravvento sul principio del male che è in lui (Per la pace perpetua. Un progetto filosofico). Non era facile, ai tempi di Kant, mantenere tale fiducia: il filosofo tedesco assiste con partecipazione e, al tempo stesso, con raccapriccio, alla Rivoluzione francese e alle guerre che ne seguono; e nel caos dei conflitti riesce a distinguere una logica: la rivoluzione altro non è che un passo compiuto da un intero popolo verso l’uscita dalla stato di minorità; è, dunque, una traduzione storica della grande idea illuminista e, da questo punto di vista, l’adesione di Kant agli obiettivi della rivoluzione è totale. Ma rimane anche profondamente turbato dai mezzi che la rivoluzione mette in atto: l’esecuzione di Luigi XVI – scrive nei Princìpi metafisici della dottrina del diritto – è un abisso che inghiotte tutto senza restituire nulla, è come un suicidio dello stato, è un delitto che sembra non possa essere riscattato da nessuna espiazione. Kant non ammetterà mai di conferire al popolo un diritto di resistenza nei confronti del sovrano; per lui, l’azione politica trasformatrice dev’essere affidata al sovrano illuminato, che si dovrebbe avvalere dei consigli dei filosofi; rifiuta l’idea stessa di una rivoluzione, convinto, com’è, che i progressi reali si possano ottenere attraverso riforme graduali guidate dall’alto. Né nobili né proletari Il filosofo prussiano mostra, come si vede, una doppia faccia. Non è una contraddizione, ma l’espressione di una profonda spaccatura che compare in tutti gli aspetti del pensiero kantiano: la scissione fra l’ideale, da una parte, sia esso quello della vita morale personale, o quello della vita civile degli stati; e, dall’altra parte, la dura realtà storica, che vede il maggior numero degli uomini ancora in preda agli istinti, e il maggior numero degli stati ancora lontano dal vero regime repubblicano. Che per Kant non è una repubblica democratica come oggi la intendiamo: Kant rimane sempre monarchico, e considera la democrazia come il peggiore dei regimi; piuttosto, il regime repubblicano è quello di uno stato civile, basato sul diritto, che riconosce ad ogni membro della società la libertà che egli possiede in quanto uomo, la dipendenza di tutti da un’unica legge, e l’uguaglianza. Queste condizioni risultano dirompenti nei confronti della situazione generale del tempo di Kant. La libertà, infatti, è da lui intesa come un limite posto all’ingerenza dello stato in un’epoca in cui lo stato (quello prussiano in particolare), tentava di regolare per legge anche gli aspetti più quotidiani e minuti dei sudditi: Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che gli sembra buona (Sopra il detto comune: Questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica). La rivendicazione di uguaglianza va a cozzare direttamente contro le prerogative della nobiltà; Kant, in particolare, condanna l’ereditarietà della grande proprietà fondiaria, perché ostacola la costruzione di una società nella quale ciascuno possa emergere in base al proprio talento e alla propria operosità. L’aspetto antidemocratico emerge invece nella concezione kantiana dell’indipendenza economica: per essere pienamente citta- dini è necessario, a suo avviso, essere padroni di sé stessi, cioè avere una qualche proprietà, o una professione o un’arte, che garantiscano l’autonomia economica; ne sono esclusi tutti i salariati. Kant introduce insomma una divisione dei cittadini in due categorie, che corrispondono in realtà a due classi: non è sbagliata la deduzione di chi attribuisce a Kant una piena corrispondenza con le esigenze – antinobiliari, ma anche antiproletarie – della borghesia del suo tempo. La pace perpetua La Rivoluzione francese costituisce, per Kant, l’annuncio che si è aperta l’epoca nella quale è possibile costruire un tale regime repubblicano. E il vedere la Natura al lavoro – pur attraverso una rivoluzione – incoraggia il filosofo a spingere la mente più in là, a dichiarare la propria fiducia che quel che possono fare gli individui all’interno di uno stato, lo possano anche fare gli stati fra loro: istituire, cioè, un legame giuridico, che li sottometta tutti ad una legge, in modo simile ai cittadini i quali, in caso di controversie, non si fanno la guerra ma ricorrono al magistrato: Per gli stati che stanno tra loro in rapporto reciproco – scrive in Per la pace perpetua – non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro libertà selvaggia, consentire a leggi pubbliche coattive e formare così uno stato di popoli (civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra. La soluzione migliore sarebbe dunque, per Kant, una repubblica universale; ma poiché gli stati rifiutano una tale soluzione, si può almeno cercarne il surrogato in una lega permanente e sempre più estesa tra gli stati, che renda compatibile la libertà di ciascuno di essi con l’introduzione di uno stato giuridico nei rapporti internazionali. Kant chiama tale lega federazione; in realtà, usando il linguaggio odierno, non si tratta di federazione, bensì di una confederazione, paragonabile a quella creata fra le colonie inglesi d’America al tempo della Dichiarazione di indipendenza: ciascuna era uno stato sovrano, che aveva stretto un accordo con gli altri per la lotta contro l’Inghilterra. La federazione venne dopo, quando i nuovi stati americani decisero di rinunciare a una parte della loro sovranità in favore del governo federale. Gli Stati Uniti d’America attuarono, con la loro ingegneria costituzionale, quel che Kant deduceva dalla riflessione razionale, ma non riuscì a formulare in termini giuridici e politici convincenti. Che cosa rimane, oggi, della riflessione politica di Kant sulla pace? Rimane notevole il tentativo di unificare gli sforzi della Natura con quelli della ragione: di far vedere, cioè, come il progresso verso un ordine giuridico e morale possa trarre vantaggio anche dai bisogni, dagli interessi, dagli egoismi. È una prospettiva affascinante, ma anche pericolosa: l’argomento che la ragione universale coincida con i propri interessi è stato usato, anche recentemente, per giustificare non la costruzione della pace, ma proprio l’entrata in guerra. E ancora, appare troppo esile il legame che l’uomo razionale kantiano ha con gli altri uomini, basato sulla scoperta, da parte di ciascuno, di avere dentro di sé la medesima legge morale; una scoperta importante, certamente, ma che ci affida ad una Natura comune troppo lontana e astratta per far sentire profondamente la convinzione di una vera coappartenza, per dare fondamento all’esistenza di una comunità umana. Che cosa si è avverato, invece, della prospettiva kantiana? Un elemento importante, che Kant si augurava senza sperarci molto: l’idea che un accordo fra gli stati come dimostra il processo di unificazione europea (vedi riquadro) si possa instaurare e riesca a crescere un po’ alla volta, senza guerre e senza traumi, l’idea che la ragione umana possa imparare la lezione della guerra. Con tutte le sue venature di pessimismo, Kant non ha mai perso la fiducia che la forza morale, come accade per le singole persone, riesca a farsi strada anche all’interno dei popoli. Il paradosso sta nel fatto che questa crescita avvenga – e sia resa possibile – all’interno di strutture democratiche: cosa che il filosofo di Königsberg non avrebbe mai ammesso. Ma se potesse parlare oggi, forse si direbbe contento (moderatamente) di essersi sbagliato. L’UNIONE EUROPEA UN PROGETTO KANTIANO? La storia ha poi fornito qualche esempio di quella lega permanente auspicata da Kant? L’Unione europea sembrerebbe avere seguito, per certi versi, la strada da lui indicata: dopo le efferatezze della seconda guerra mondiale, la ragione dettava l’esigenza di avviare un processo che andasse al di là del semplice trattato di pace o armistizio: la prima guerra mondiale, infatti, si era conclusa con un trattato che, per la pesantezza dei suoi contenuti nei confronti dei vinti, conteneva tutte le premesse della guerra successiva: tutt’altro, dunque, che una garanzia di pace perpetua. Dopo la seconda carneficina del secolo, invece, i padri della nostra Europa volevano proprio porre le condizioni per rendere la guerra impossibile.Certamente, partirono con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, dunque con un accordo di tipo economico. Ma la loro intenzione era però molto diversa rispetto al ruolo che Kant attribuiva allo spirito commerciale; per Schuman,Adenauer e De Gasperi, infatti, era chiaro fin dall’inizio lo scopo politico di quel primo passo: si partiva da un accordo economico per mettere le basi di una unione che doveva investire tutti gli aspetti della convivenza. Ancora, la nuova Europa si discosta dallo spirito kantiano perché non si trattò di usare soltanto la mera ragione; anzi, la ragione – come capacità tecnica e organizzativa – paradossalmente, era stata abbondantemente in opera proprio nella guerra, e anche da parte di chi perseguiva il male: nei fondatori dell’Europa era invece operante un impulso politico che trovava nella fede la sua forza ultima; e la convinzione che le radici cristiane dell’Europa fossero forti e attive conferiva una fiducia non pessimista sullo sviluppo del processo unitario.Altro che fiducia nella Natura! L’adesione a una prospettiva di fraternità fra i popoli e di solidarietà planetaria spinse alla costruzione della nuova Europa! Il processo di unificazione europeo, proseguendo, ha smentito un’altra prospettiva che Kant considerava troppo radicata per essere superata: la sovranità di ogni singolo stato. L’interdipendenza degli affari europei, la creazione di organismi comuni di governo, l’esistenza di un obbligo di modificare le legislazioni dei singoli stati per applicare le direttive dell’Unione: tutto ciò ha portato ad una effettiva distribuzione della sovranità, in numerose materie, tra i singoli stati e il governo dell’Unione. SCUOLA DI POLITICA ETICA PUBBLICA ALLA GREGORIANA Un percorso universitario che vuole fornire le basi culturali e etiche per chi si impegna nel sociale e nel politico. Un progetto di studi originale, che mette insieme materie tradizionalmente insegnate in facoltà diverse, e al quale infatti collaborano docenti provenienti da varie università romane, componendo uno staff fuori dall’ordinario. Questo è il diploma di Etica pubblica, che inizia in questi giorni il suo quinto anno di vita, offerto dalla Pontificia Università Gregoriana di Roma a tutti coloro i quali, inseriti nei diversi settori della vita professionale o impegnati in campo culturale, sociale, politico, economico o nel volontariato, avvertono l’esigenza di una formazione etica qualificata per svolgere al meglio il proprio compito. La formula proviene dall’esperienza delle Scuole di formazione sociale e politica Res nova, e ha trovato alla Gregoriana il luogo favorevole per sviluppare le potenzialità legate all’idea di formare una vera e propria cultura del cittadino, che vi riceve le competenze necessarie per intervenire nella sfera pubblica. I nostri corsi – ci spiega il prof. Antonio Maria Baggio, responsabile del diploma – vengono frequentati anche da studenti di altre università, che trovano in Etica pubblica un complemento alla formazione, a volte eccessivamente ristretta, che ricevono all’interno del loro corso di laurea. Ecco allora che alle materie etiche di base, quali Etica generale e Etica sociale, vengono affiancate le indagini su settori di particolare rilevanza, quali Etica ambientale (S. Rondinara), Bioetica e politica (A. Spagnolo e M. Di Pietro), Politiche della popolazione (M. Angerame Guerra). Le tradizionali discipline politiche, quali Filosofia politica (Baggio), Storia del pensiero politico (S. De Luca), Scienza politica (A. Lo Presti), entrano in confronto con la dimensione teologica, attraverso la Dottrina sociale cristiana (P. Vanzan). Al campo del diritto si dedica il corso di Teoria dello Stato e delle Istituzioni, nel quale la prof.ssa Bruno coordina le lezioni di altri specialisti, quali un magistrato (G. Caso), e una funzionaria ministeriale (I. Mucciconi). Le Relazioni internazionali sono affidate al prof. Buonomo, e i Fondamenti di filosofia alle prof.sse Salatiello e Tenace. A tutti questi corsi si affiancano esercitazioni e conferenze aperte alla cittadinanza. E altri corsi fuori programma, come abbiamo fatto lo scorso anno – spiega il prof. Barlone, preside dell’Istituto di Scienza Religiose -, quando abbiamo organizzato un corso su Il principio assente. I percorsi della fraternità nella politica e nel diritto, tenuto da 12 docenti di altrettante università italiane. Secondo il prof. Gianfranco Ghirlanda, rettore della Gregoriana, con questo diploma intendiamo svolgere un servizio ai laici secondo la loro specifica vocazione: essi nei diversi fronti dell’impegno civile non sono sempre supportati da una adeguata preparazione culturale, anche sul versante teologico. Stiamo inoltre lavorando per far crescere l’attuale diploma e trasformarlo in una laurea triennale. Proprio questa attenzione a chi già lavora o studia ha portato alla scelta di tenere tutti i corsi nel pomeriggio (due pomeriggi alla settimana), e di dare la possibilità agli studenti di svolgere un programma personalizzato, compatibile con i loro orari e impegni.

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