Le città, durante e dopo il Covid19
Qualche settimana fa stavo scrivendo un saggio sul “Capitale spaziale”, ovvero sull’importanza dello spazio pubblico nelle nostre città, vero patrimonio collettivo che nei tempi della Rete stavamo riscoprendo e sul web circolavano, virali, immagini e video, delle piazze strapiene di Sardine in Italia, delle manifestazioni e scontri in America Latina; di proteste sindacali e Gilet Gialli a Parigi, di rivendicazioni di autonomia da Hong Kong a Barcellona; delle colorate sfilate dei “For Future” tra piccole e grandi città del mondo. Erano proteste, manifestazioni, slogan, che a volte necessitavano di misure di mutua distanza: in piazze contigue, in cuscinetti di sicurezza delle forze dell’Ordine. La cifra di tali misure di distanza era sulla scala di livelli di tolleranza mutua da rispettivi (e rispettabili) punti di vista in una società polarizzata sempre più in recinti che separavano un “noi” da un “loro” per classi sociali, appartenenza politica, di genere, per identità territoriali o culturali.
Questo succedeva, fino a qualche settimana fa. Oggi le piazze sono vuote e i diritti reclamati e rivendicati confinati negli spazi domestici. La questione ambientale che viaggiava tra la deforestazione dell’Amazzonia e la riforestazione di Milano sembra svanita, assieme ai livelli di polluzione dell’aria. I canali di Venezia sono trasparenti e il riscaldamento Globale cede posto al congelamento delle relazioni sociali. Non abbiamo più bisogno di essere distanti da un “loro”, già che siamo isolati per un virus invisibile, mentre alla vista ci appaiono da schermi TV, pc e smartphone altri messaggi altrettanto virali del tipo “andrà tutto bene”; “tornare alla normalità”: il primo diretto ad uno speranzoso futuro, e il secondo ad un nostalgico passato.
Paure, incertezze, ansia, malinconia e dolore ci coinvolgono invece in questo presente che in tempi di quarantena e quaresima, sembra un lungo sabato santo, sospeso in attesa di una resurrezione che, per seguire il filo di una narrazione evangelica, probabilmente non sarà come era prima che accadessero certe cose, tanto meno come ci si potesse immaginare. Cambieranno le cose; e alcuni comportamenti in atto in questi lunghi giorni e settimane, rimarranno. Altre cose che neanche pensiamo, succederanno.
Forse useremo oltre che con maggiore intensità anche meglio il digitale, in modo più articolato: dal lavoro all’educazione; dai rapporti interpersonali alle faccende domestiche e, forse, apprenderemo a diffidare di tanti messaggi e notizie magari non esatte, se non addirittura fake.
Forse allenteremo l’uso dei mezzi di trasporto, rendendo le città meno asfissianti e capendo che anche l’ambiente a volte ha bisogno come noi di quarantene e non solo di domeniche “senz’auto”.
Forse usufruiremo al meglio di servizi online e del relativo uso di mezzi automatici e perché no, potremmo ridurre gli acquisti per quei beni e servizi non necessari, dato che ne sorgeranno di altri: qualcuno inizia a produrre prodotti più utili alla situazione. Magari potremmo anche ripensare i ritmi della società: gli orari del commercio, dei flussi, del traffico, in nuove compagini tra digitale e presenziale del nostro stare insieme tra lavoro, tempo libero, educazione; vita sociale e da questo confinamento forzato chissà, forse apprenderemo così come sembra da primi, timidi segnali, qualcosa di nuovo anche sulla metrica dei nostri rapporti, da misurare oltre rispettivi punti di vista: le distanze imposte dalle disposizioni sanitarie, paradossalmente sembrano rilevare nuove scale di misura, basate su livelli di solidarietà; passata l’onda di quella emotiva dai balconi è sopraggiunta quella verso chi è al fronte dagli infermieri a chi assicura la sicurezza, a chi dai supermercati alle attività necessarie, porta avanti il paese. Rischia di estendersi secondo ultime news questa solidarietà; tra estrazioni politiche diverse, tra catalani e madrileni, eccetera.
Cambierà la società, cambieranno le nostre città: avrei scritto sul “capitale spaziale” pochi giorni fa agli studenti di Urbanistica, e invece mi trovo a scrivere di Medicina Urbanistica. Urbanistica, una disciplina nata alla fine del XVIII secolo per questioni di igiene, al capezzale del corpo malato della città sopraffatta da epidemie per sovraffollamento e in Italia consolidatasi da improvvisati chirurghi-urbanisti che hanno affrontato nel 1885 l’epidemia del Colera a Napoli, aprendone quel Ventre così ben descritto da Matilde Serrai nel 1885: da lì il termine sventramento con il quale – chirurgicamente – è stato chiesto ai tecnici di reinventare il tessuto urbano della città aprendo, oltre a strade e piazze per dare aria e luce ai malsani quartieri, a tutta una serie di norme e pratiche che sono divenute poi la base delle attuali normative e codici in materia di rendita e gestione. Un’operazione fatta con una Legge ad hoc emanata dal Governo Nazionale di allora, molto impegnativa a livello finanziario e che ha lasciato molti buchi, polemiche e speculazioni.
Oggi, dobbiamo ancora una volta, ripensare e ricominciare le nostre città e, ancora una volta, sarà una questione d’igiene pubblico quella che potrà sollecitare, stimolare nuove cose. Sul “dove” ricominciare, sappiamo: negli spazi del capitale spaziale, dei luoghi pubblici, estesi all’habitat in generale. Sappiamo anche, dall’esperienza del Risanamento di Napoli, che non sono sufficienti operazioni sul corpo fisico; oggi non è necessario sconquassare nessun brano di città.
Sulla dimensione temporale del quando, possiamo vere aspettative di futuro e speranza, sappiamo anche che dal presente possiamo apprendere e sedimentare esperienze, pratiche, necessità incompiute. Forse, quello che dobbiamo elaborare ancora è una domanda di qualità. Come staremo insieme; “Come potremo vivere noi insieme?” Era il titolo-domanda della Biennale di Architettura di Venezia, che avrebbe aperto le porte a fine maggio ed è estate rimandata.
Come stare insieme, su quali livelli di convivenza, nella scala che va dalla tolleranza alla solidarietà? Come staremo insieme, più attenti alla lezione di “fragilità” appena appresa, e che ripropongono la questione annosa dei servizi legati al welfare se siano costi o investimenti? Come staremo insieme, dato che grazie alla riscoperta dei mezzi digitali forse potremo sviluppare nuovi lavori e mansioni?
Come staremo di nuovo insieme? Chissà cosa ci porteremo dietro, da quel tempo del Covid.