Le bombe e i materassi
Èstata una guerra forse non troppo lunga, ma folle, perché non ha risparmiato nulla e nessuno: bambini, vecchi, disabili. Una guerra che ha distrutto e diviso famiglie, distrutto ponti e centrali elettriche. Una guerra che ha certo approfondito le già drammatiche e annose divisioni nella regione. Tuttavia essa ha offerto un’ulteriore spinta alla coesione del paese, già iniziata all’indomani dell’uccisione dell’ex primo ministro Hariri, e proseguita con la partenza dei soldati siriani dalla terra dei cedri. Questa riavvicinamento tra le posizioni assai divergenti – religiose, etniche, politiche culturali ed economiche – esistenti all’interno del Paese è stato possibile anche per la spontanea solidarietà che è nata tra la gente semplice, tra chi fuggiva le proprie case minacciate dagli aerei, e chi li accoglieva nelle proprie case ancora risparmiate dalle bombe. Un’ondata di riconciliazione che dovrebbe fare pensare chi ha nelle mani il futuro della regione. Abbiamo ricevuto in redazione numerose testimonianze di questa gara di solidarietà che tanti hanno messo in atto in Libano. Tra queste, a malincuore, abbiamo dovuto fare una scelta: ecco allora quanto hanno scritto due donne cristiane, Janine Safa e Nicole Hélou che, con altri amici, hanno deciso di rimanere nella pace, una conquista di ogni istante in cui bisogna ricominciare e ricominciare sempre, come scrivono. Lavorano in un istituto per sordomuti che funge anche da centro sociale per le adozioni a distanza – l’Irap, in collegamento con le Famiglie nuove – della regione di Ain Aar, non lontano da Beirut. Con altre associazioni umanitarie, hanno cercato di far fronte all’emergenza. Ecco il loro racconto. Biacout, la storia si ripete Stiamo cercando di avere notizie delle famiglie delle adozioni a distanza. Siamo molto preoccupati per quelle del sud, una regione bombardata in continuazione: un villaggio è stato assediato quest’oggi. Che ne sarà degli abitanti? Altri villaggi sono accerchiati e senza risorse da dodici giorni. Pensiamo a Youssef, Maroun, Chantal… quei bambini che abbiamo fatto giocare nel maggio scorso. Questi bambini cosi belli, pieni di vita, di promesse, chissà cosa è successo loro? Hanno paura, hanno fame, sono ammalati, feriti, morti? Il villaggio di Biacout, come tutti i villaggi libanesi che non sono stati ancora bombardati è gremito di famiglie sfollate dalle regioni a sud di Beirut. Le case, le scuole e persino gli edifici in costruzione accolgono senza distinzioni cristiani e musulmani. Al Centro medico sociale incontriamo Acia: 20 anni fa con lei iniziavamo la nostra avventura a Biacout, con le centinaia di famiglie che avevano fuggito il sud. L’avevamo trovata sulla spiaggia, senza tet- to, senza viveri. Da allora è con noi. E oggi la storia ricomincia da capo. Acia accoglie a casa sua famiglie del suo villaggio, del sud: tre famiglie e due vecchietti soli. La sua situazione economicamente precaria non le impedisce di condividere tutto con gli altri. Ci arrangiamo come è possibile – ci dice -. Meno male che siamo in estate: gli uomini dormono infatti sulle terrazze. Ma abbiamo bisogno di materassi e soprattutto di medicine per i bambini, ma anche per mio marito Geries, che da un anno è afflitto da una sclerosi muscolare. Oggi altre famiglie si sono istallate da Saidé, la mia vicina, in condizioni pessime. Hanno bisogno di tutto. Condividiamo quanto abbiamo e continuiamo il nostro giro. Sul pia- nerottolo della Maison Notre Dame – un centro di accoglienza cristiano -, alcune donne guardano il via vai della gente. Esitano a salutarci, non ci conoscono. È Sawsan, la maestra dell’asilo, che li ha ospitati. Altre donne si aggiungono al cerchio. Fatmé, Manal, Mona, Fadwa, Suzanne e Zahra ringraziano Dio di essere qui e sperano poter ritrovare sani e salvi i famigliari rimasti vicino alla frontiera. Speriamo che Allah bruci tutti quelli che ci uccidono, esclama con rabbia una di loro. Ascoltiamo senza approvare le sue parole. E così, di fronte al nostro atteggiamento, rettifica la sua dichiarazione: È più forte di me, mi scaldo, mi arrabbio per quanto sta succedendo, ma so anche che gli altri dall’altra parte soffrono come noi dalla furia della guerra. E Fatmé: Che l’Onnipotente calmi i cuori e gli spiriti. Il rombo degli aerei Sono le nove di sera. Abbiamo appena saputo dell’arrivo di due famiglie di Tiro. Il parroco le ha ricevute in un convento vicino ad Ain Aar. Con lui ci rechiamo a salutarle e a portare qualche pacco di alimenti appena ricevuti da un gruppo di scout. Fa buio pesto. Un uomo ci saluta, si chiama Hussein, e ci presenta i due figli, Ibrahim e Ali. Anche una donna, con una bimba in braccio, si avvicina: Siamo fuggiti da Tiro questa mattina. Ci siamo fermati all’ospedale di Sidone perché il piccolo era rimasto ferito alla gamba mentre scappavamo. Gli hanno messo dei punti. Entriamo. La hajjé, la nonna, col volto disfatto, ci saluta con un filo di voce: Che Dio sia con voi. Il parroco offre ai capifamiglia di lavorare un campo del convento. Al momento di partire, Mountaha – la moglie di Hussein – ci accompagna sotto il cielo stellato: Ma è proprio vero che siamo in guerra?, viene da chiederci. Appena posta la domanda, il rombo degli aerei riempie il cielo, spaventando la donna: Anche qui? Pensavamo di essere al sicuro. La rassicuraro: Non temere, li sentiamo solo passare. Non possiamo più neanche sentirli, mi risponde Mountaha con parole stanche. Una voce riempie la notte: Qui siamo nella casa di Dio, quindi, da lui non c’è niente da temere. È Hussein. Le foto e il sorriso Bherdok. Attraverso un lungo corridoio del primo piano della scuola che funge da casa di accoglienza. Dietro alle porte socchiuse scorgo bambini che giocano sui materassi, signore che spazzano, giovani che chiacchierano. In fondo al corridoio, ecco la famiglia Felfly. Per terra, su un materasso,Mariam, Mario, Mélanie seduti attorno a Sabté. Abbraccio tutti, sono cosi felice di ritrovarli. Sabté rimane imperterrita, con un sorriso perso nel vuoto, senza reazioni. Mi guarda appena. Sabté, sei tu?. Guardo i fratelli e le sorelle, cercando di capire: dov’è Sabté, quella bella giovane che andava a scuola di giorno e che s’incaricava della famiglia al ritorno, accogliendo sempre tutti con un sorriso luminoso? Mi siedo per terra di fronte a lei, la guardo negli occhi. Sono stanca – mi dice con uno sforzo immane -. La testa mi fa male, ho delle vertigini. Abbiamo vissuto momenti di incubo. Siamo scappati, sotto le bombe. Ho avuto paura. Non guardavamo indietro, c’era solo da correre. Ora sono stanchissima!. Il mio cellulare suona. Sabté si rianima. Posso provare a chiamare una amica?, mi chiede. Riprende a vivere, una telefonata dietro l’altra. Si confida, e piano piano rivedo il suo sorriso.Mi chiede di portare alcune cose che mancano ai suoi, non vuole niente per lei. Quando le chiedo di scattare una foto insieme, è felice. E quando le prometto di dargliela, mi salta al collo. Poi tutti vogliono farsi delle foto.Di colpo è festa: ridiamo come bambini mentre cerchiamo di trovare la migliore posa, anche il padre, al solito burbero, ci raggiunge e vuole la sua foto col bastone. La preghiera attorno all’ulivo Torno al mio lavoro, ma sono chiamata per un’altra missione: bisogna trovare un alloggio per una famiglia di sei persone che arriva da Tiro.Vedo visi stanchi. Il più piccolo, Raphaël, 18 mesi, sta succhiando il latte dal seno della mamma.Antoun, 4 anni, dorme sulle ginocchia del babbo. Roy e il suo fratello ci salutano timidi. Arrivati al convento dove li alloggeremo, un diacono ci accoglie con pace. La gente è amabile e sorridente. Un uomo di Tiro, riconosce la famiglia ed è felice di ritrovarla perché non aveva nessuna notizia di loro. Mentre attraversiamo i corridoi, il cortile, le sale immense, c’è un’atmosfera insolita di serenità. Infine una bella serata, non c’è che dire. Davanti alla chiesa parrocchiale, attorno a un ulivo piantato nella piazzetta, ci troviamo in un centinaio, musulmani e cristiani, giovani di vari movimenti, radunati per pregare per la pace. I musulmani leggono versetti del Corano, i cristiani gli Atti degli apostoli. I giovani leggono pagine di Martin Luther King. I canti al suono dell’oud e della chitarra si alzano verso il cielo annunciando a tutti i viventi della terra il desiderio di pace e unità che si leva da questo angolo del Libano, portando questo voto agli abitanti del Cielo, seme di fratellanza. Il convoglio di Marjayoun La campana suona l’una del mattino. Dove saranno? In che stato sono? Siamo sedute l’una di fronte all’altra e rimaniamo senza risposta. Parliamo poco, stiamo pensando a loro. Aspettiamo un convoglio degli abitanti di Marjayioun. Siamo stati avvisati ore fa dell’arrivo delle famiglie di questa città vicino al confine del sud particolarmente colpita, circa mille auto. Bisogna trovare dove sistemarli. Cominciamo i contatti: bisogna fare in fretta. Troviamo posti a Achkout, Broummana, Baabdat. Nel frattempo veniamo a sapere che in certi luoghi di accoglienza la gente dorme per terra. Racimoliamo quanto abbiamo – materassi, lenzuola, asciugamani -, e partiamo. Ed è lì che abbiamo notizie del convoglio: ha un grave ritardo, è bloccato nella Bekaa e arriverà solo nella tarda serata. Grazie a Dio sono usciti dalle zone pericolose. Davanti ad un caseggiato ci fermiamo. Fa buio, non c’è elettricità. Ecco il rombo degli aerei. Ci fermiamo in un edificio abbandonato. Notiamo le ombre di alcune donne e bambini sui balconi. Gli appartamenti vuoti ospitano ognuno tre o quattro famiglie. Al primo piano venti persone hanno sette materassi di gommapiuma vecchi e maleodoranti. Al piano di mezzo un giovane dorme su un pezzo di cartone. Al piano di sopra, un gruppo di donne, di uomini e bambini sono seduti per terra, sui giornali o sui cartoni, ma alcune donne hanno dei materassi. Grazie ci arrangiamo. La famiglia del primo piano ha più bisogno di noi. Ma se avete qualche maglione…, ci dice una giovane mamma. Siamo in montagna, a più di mille metri, e la sera, in queste case nude e senza vetri, fa freddo. Avete delle coperte?. Un piccolo gruppo si raduna attorno al nostro veicolo. Un papà chiede: Ma chi siete?. Siamo gente come voi -diciamo -, dei piccoli, e vi vogliamo bene. Ma l’uomo in tono solenne ci fa: No signora, noi siamo grandi, grandi nella prova, grandi nel dono. Al ritorno, la tv: il convoglio di Marjayoun è stato bombardato nella regione di Kéfraya, nella Békaa. Le immagini mostrano i primi feriti. Quanti morti? La barbarie aumenta ogni giorno di più, e il mondo tace, e i grandi discutono, e i potenti pensano a fermare i militari… Ripensiamo a tutto ciò ora che il cessate il fuoco è in atto, e che gli amici musulmani sono tornati alle loro case o a ciò che resta. Hanno voluto risalire per una serata ad Ain Aar, per una festa. C’è emozione, gioia e gratitudine, dopo il mese di incubo vissuto assieme. Ho scoperto l’altro – dice una donna musulmana -, l’altro cristiano, l’altro diverso da me. La sorpresa per quanto è successo è palpabile: non siamo più quelli di prima.