Le attese del nuovo presidente
Un’attesa. È quanto ha in cuore Luigi Alici dopo cinquanta giorni dalla nomina a presidente nazionale dell’Azione Cattolica da parte della Conferenza episcopale italiana, avvenuta il 31 maggio scorso. Il suo desiderio è che si torni a guardare all’Azione Cattolica anche per la rilevanza istituzionale che essa ha nella Chiesa italiana. In passato, l’associazione ha registrato una difficoltà, forse anche di natura culturale, a farsi percepire, pure all’interno della chiesa, come associazione, come una realtà, cioè, istituita, che poggia su un’adesione, che ha un percorso decisionale formalizzato. Oggi, in una post-modernità sempre più liquida, si avverte la necessità di punti di riferimento che non siano affidati all’intermittenza delle emozioni. Oltre 400 voti dai delegati dell’assemblea nazionale. Si aspettava, presidente, un consenso tanto vasto? La straordinaria convergenza io la interpreterei non tanto sulla mia persona, ma quanto espressione di una volontà unanime maturata dall’associazione nel triennio passato, grazie anche all’opera straordinaria di Paola Bignardi, che mi ha preceduto. Una volontà unanime di andare avanti speditamente sulla strada tracciata. Prima di dare la sua disponibilità per l’impegnativo compito, si è consultato in famiglia? È stato il primo passo, perché mi trovavo davanti ad un vero e proprio terremoto spirituale, che mi poneva due grandi questioni. La prima era legata alla dinamica famigliare, che in qualche modo viene trasformata dal nuovo compito. La seconda era legata all’impegno professionale d’insegnamento e di ricerca. In famiglia il voto è stato unanime? Unanime. E, se devo essere sincero, è venuta dalla mia famiglia quella spinta decisiva che, forse, da solo non sarei stato in grado darmi. È entrato in AC da ragazzo. Cosa l’attrasse? Soprattutto, l’equilibrio, sempre molto difficile, a fare sintesi la crescita umana e la crescita spirituale, senza fanatismi e senza tiepidezza nei confronti del messaggio evangelico. La grande scommessa della formazione in Azione Cattolica è di accogliere la proposta santità senza lasciare la propria fuori della porta. Lei succede a due mandati di una presidenza femminile. Quali novità portato Paola Bignardi? Credo sia un bilancio molto importante e forse un po’ difficile fare senza un minimo di distanza storica. Probabilmente tra qualche anno potremo cogliere più profondità quella novità, adesso rischiamo di fermarci agli aspetti più superficiali. Al momento posso dire che Paola Bignardi, oltre a scelte fondamentali compiute – l’aggiornamento dello statuto, il progetto formativo, il grande evento di Loreto -, ha portato un soffio di spiritualità che ha vivificato tutti. È riuscita a far appassionare l’associazione e a farle ritrovare una passione profonda per una spiritualità e per una vocazione alla santità profonda e condivisa. Quale compito il tempo presente affida, secondo lei, al laicato cattolico? Negli ultimi anni, le riflessioni sul laicato sono state prevalentemente di metodo, e cioè: quali sono gli spazi propri del laicato? come il laicato può vivere la propria fede? Oggi credo che la vera sfida riguardi un approfondimento teologico del ruolo del laicato. Ne avverte proprio l’urgenza? Prima di un’agenda delle cose che il laicato può fare, è molto importante che nella chiesa maturi una riflessione profonda sulla forma della vita cristiana che oggi dobbiamo condividere e sulla natura della testimonianza. L’appuntamento della Chiesa italiana a Verona nel 2006 ci stimola in questa direzione, come pure la Lettera ai laici, che recentemente una commissione della Cei ha scritto. La presidente Bignardi ha avviato l’AC ad un tempo di dialogo e collaborazione con i gruppi ecclesiali. Lei proseguirà nel cammino? Come farne tesoro? Il patrimonio deve essere raccolto e deve essere valorizzato. Valorizzato, prima di tutto, approfittando delle sue opportunità per non accontentarsi di far aumentare il tasso di stima reciproca, di rispetto e di cooperazione, ma, prima di tutto, cercando di impostare una riflessione il più possibile condivisa sull’idea stessa di comunione. Una riflessione senza pregiudizi e senza ipoteche, perché è lo Spirito che ci chiama, e quando lo Spirito ci chiama è lui a mettere i paletti e non noi. La comunione ecclesiale ha al suo interno delle potenzialità che oggi le sfide culturali ci chiedono di esplicitare sempre di più. La riflessione sulla comunione che auspica è nella prospettiva della missione? Certo, anche in chiave di missione. Perché oggi è il popolo di Dio nella sua profonda dinamica di comunione che deve parlare il linguaggio dell’annuncio del vangelo. Poi, lo farà con linguaggi plurali, con forme, vie e metodi differenziati, non solo inevitabilmente differenziati, ma anche auspicabilmente differenziati. Però, l’annuncio cristiano è tanto più efficace quanto più si avverte che il soggetto dell’annuncio cristiano è il popolo di Dio e non è questa o quella associazione.