Le armi prima dei bombardamenti

La fornitura di armi al regime di Gheddafi da parte di aziende italiane è andata crescendo negli anni. Secondo quale logica?
libia guerra

Mentre il governo italiano decide di aderire al programma di bombardamenti “mirati” sulla Libia, avviato dalla coalizione dei Paesi “volenterosi”, è istruttivo recuperare qualche informazione dalla vasta documentazione specialistica in tema di strategie e armamenti per suscitare qualche opportuna domanda.

 

I piloti libici atterrati a Malta lo scorso febbraio, facendo ricorso all’obiezione di coscienza contro il bombardamento degli insorti, guidavano dei caccia di fabbricazione russa. L’ex impero sovietico, infatti, assieme alla Francia e all’Italia, risulta tra i primi fornitori di armamenti del governo del Paese nordafricano. Secondo un approfondito dossier curato dall’Istituto archivio disarmo, dopo la conclusione del trattato di amicizia e collaborazione italo-libico del 2008, l’accordo è intervenuto dopo un trend di crescita poderosa delle esportazioni di armamenti italiani verso la Libia: dai quasi 15 milioni del 2006 ai 111 del 2009, con la prospettiva di un maggio consolidamento del settore tramite joint venture tra il gruppo Finmeccanica e la Libyan Company for aviation Industry. È un giro di operazioni complesse che ha portato il fondo sovrano libico a possedere una quota azionaria significativa della stessa Finmeccanica. Azienda interessata, tra l’altro, a sviluppare tecnologia da usare per contenere l’arrivo dei migranti alle frontiere della stessa Libia.

 

D’altra parte la strategia dell’intera operazione era stata già auspicata da altre analisi, come quella pubblicata dal generale Carlo Jean sulla rivista dell’Istituto Aspen nel 2007. Il docente di geopolitica e studi strategici della Luiss con molto realismo invitava a seguire l’esempio della Francia che era riuscita a “fare sistema” come Paese sapendo destreggiarsi tramite la cosiddetta «diplomazia del nucleare»: concludendo accordi con la Libia sulla cessione di tecnologia del nucleare civile, Sarkozy avrebbe utilizzato «importanti strumenti di politica estera anche perché fanno parte di “pacchetti” più ampi che prevedono forniture di armi, concessioni petrolifere, ecc. strumenti per acquisire influenza».

 

Non diversamente da quanto già avvenuto tra Stati Uniti e India nonché Cina e Pakistan o, per restare nell’aerea, tra Russia e Algeria. Si tratta, secondo Jean, di quelle imprese strategiche che definiscono il «cuore oligopolistico mondiale»: nucleare, armamenti, aerospazio. Settori da cui non si può rimanere esclusi tanto è vero che il saggista portava ad esempio («cosa impedirebbe anche oggi di procedere in modo analogo?») l’opera bipartisan dei governi italiani che riuscirono ad aprire la strada alle imprese nazionali verso l’Iraq cedendo tecnologia e apparati nucleari e ricevendone il favore verso «l’acquisto di armamenti italiani oltre alla concessione dei diritti di esplorazione su promettenti campi petroliferi».

 

E ora lo stesso Carlo Jean ha espresso dubbi sull’escalation che la partecipazione italiana ai bombardamenti sulla Libia potrebbe avviare («si rischia un nuovo Vietnam» ha detto su Sussidiario.net). Resta così da discutere l’impianto generale della strategia di produzione e vendita degli armamenti espresso – va detto, con onestà intellettuale e condiviso oltre i confini – dall’attuale esecutivo. Non sarà questo uno dei nodi da sciogliere piuttosto che trincerarsi dietro la scappatoia della “guerra giusta”? Come è stato già detto a www.cittanuova.it dal vescovo Martinelli, uno dei testimoni diretti e più credibili dalla Libia attuale: «Non riesco a capire la logica, non riesco a capire come si possa riuscire a risolvere il problema libico con qualche missile in più».

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