Le armi che gli Stati Uniti non chiedono
Sono tornati a scuola venerdì. Dopo 9 giorni dalla sparatoria che ha ucciso Carmen, Meadow, Peter, Nicholas, Christopher, Aaron, Luke, Alaina, Jamie, Martin, Alyssa, Helena, Scott, Joaquin, Cara, Gina e Alexander, studenti e insegnanti hanno rimesso piede nelle aule della Marjory Stoneman Douglas High School. L’istituto della contea di Broward, in Florida, il 14 febbraio è stato preso d’assalto da Nickolas Cruz, un ex-studente che utilizzando un fucile semi-automatico, ha sparato causando la morte di 14 compagni, 3 docenti e il ferimento di altri 13 innocenti.
Sono tornati sui banchi e sulle cattedre dopo 9 giorni di dibattiti pubblici, flashmob, cortei, veglie e incontri con i politici in cui chiedevano una riforma della norma sulle armi, maggiori controlli preventivi, il divieto di vendita di quei fucili che un semplice marchingegno trasforma in macchine da guerra che non lasciano scampo. Hanno aperto le edizioni dei tg, hanno per giorni riempito le prime pagine e la Cnn ha voluto trasmettere in diretta il botta e risposta con i rappresentanti di Camera e Senato. Questi adolescenti scampati alla morte, ma con le ferite dei loro compagni sulla pelle, hanno deciso di lottare strenuamente per le loro vite, contro uno Stato e una National Rifle Association (Nra), la potente lobby delle armi, un’associazione nazionale, apparentemente sordi alle loro richieste, quelle stesse attorno a cui, invece, si sono coalizzate star come George Cloneey e Ophra Winfrey che oltre al sostegno economico, hanno annunciato la loro partecipazione alla marcia su Washington il 24 marzo, dove chiederanno che «le loro vite e la loro sicurezza diventino una priorità e si ponga fine alla violenza armata e alle sparatorie di massa nelle scuole».
Il rimedio a queste tragedie lo ha annunciato, smentito, e riannunciato lo stesso presidente degli Stati Uniti: munire di armi gli insegnanti e offrire un bonus a chi si offre per l’addestramento che consentirà alla scuola di essere più sicura. Trump stava ascoltando alcuni dei feriti e dei sopravvissuti non solo della sparatoria della Marjory Stoneman, ma anche di Colombine (la scuola superiore del Colorado dove, nel 1999, morirono 13 persone) e di Sandy Hook (la scuola elementare del Connecticut dove morirono 27 persone e 20 erano bambini), quando la proposta di armare i professori è emersa con chiarezza. Va precisato che la campagna elettorale di Trump e di molti tra deputati e senatori è stata finanziata dai soldi della Nra e questo spiega in parte perché il Congresso, negli anni, abbia sempre declinato l’idea di imporre restrizioni alla vendita di armi, celandosi dietro la protezione del secondo emendamento.
Immediata è stata la reazione di migliaia di insegnanti alle dichiarazioni presidenziali è netto è il rifiuto di trasformarsi da educatori in vigilantes e questo anche tra coloro che detengono armi in casa e sostengono la politica presidenziale. «È pericoloso e non è educativo tenere un fucile in classe, per quanto protetto», spiega una giovanissima insegnante che spesso torna a casa stanchissima ed emotivamente provata dal lavoro con le classi. «Immaginatevi se lo stress armasse il grilletto, invece che diminuire aumenterebbero i morti». Un’altra docente invece sottolinea il rischio, in caso di sparatoria, di ritrovarsi con un fucile in mano con la polizia di fronte che non sa se considerarla complice o difensore degli studenti e anche qui si rischia doppio. «Se l’assassino fosse un mio studente, che magari ho seguito per anni, e che poi manifesta disagi psicologici seri, dovrei davvero essere io a sparargli?». Si chiede un altro insegnante del luogo. Ashley Kurth è l’insegnante della Marjory Stoneman che ha messo al riparo 65 studenti dalla follia omicida di Curz. È repubblicana e ha votato per Trump, ma durante il dibattito pubblico con i politici, trasmesso in diretta da Cnn, ha dichiarato che la risposta al problema delle armi «non è armare gli insegnanti. Dovrei quindi ricevere un addestramento per proteggere i miei studenti, oltre che educarli? Dovrei tenere un giubbotto antiproiettile sulla scrivania? Come potrei lavorare in questo modo?». La Kurth ricorda che quando le squadre speciali sono entrate, la prima domanda che hanno rivolto riguardava i feriti, la seconda «se qualcuno possedeva armi da fuoco. Io non avrei voluto essere la persona che rispondeva di sì».
All’incontro di mercoledì con il presidente Trump era presente anche Darrell Scott: la figlia Rachel era una delle vittime di Columbine. Con la moglie hanno dato vita a un programma di prevenzione del bullismo e della depressione nelle scuole intitolato proprio “La sfida di Rachel”. Negli anni hanno incontrato milioni di giovani e hanno creato una cultura della comunità e della cura perché «tanti sono i ragazzi apparentemente gentili e che invece hanno gravi problemi mentali e una propensione alla violenza insospettabile. Noi formiamo gli studenti e i docenti alla relazione, a non lasciare da solo nessuno, anche chi è diverso e in questo modo abbiamo salvato tante vite e impedito tanti suicidi. Andrebbe investito sulla prevenzione». E lo stesso sostengono i genitori della Sandy Hook che hanno dato vita ad altri programmi di assistenza nelle scuole. E invece al momento la soluzione facile è quella di armare chi ha scelto di educare, incurante dei fallimenti che questa politica continua a rinfacciarci tutte le volte che un nuovo massacro bussa alla porta di una scuola, di un club, di un concerto.
E intanto negli Usa sono 320 milioni le armi in circolazione, su una popolazione di 326 milioni di persone che per quanto si ritrovi un arsenale in casa, riceve costanti messaggi di insicurezza, di protezione, di necessità di difesa, di attentato alla Costituzione proprio dalla Nra, che ha sostenuto una legge che limita i finanziamenti indipendenti alla ricerca sull’uso e le conseguenze provocate dalle armi da fuoco. Forse la marcia su Washington del prossimo 24 marzo contribuirà a cambiare una cultura che poco ha il gusto della vita.