Le arche di San Domenico

I regnanti aragonesi di Napoli e i loro costumi. Una collezione che ha pochi esempi analoghi in Europa
Arche di San Domenico

A Napoli i padri predicatori, meglio conosciuti come domenicani, sono presenti dal 1231, epoca in cui la città era sotto la signoria di Federico II di Svevia. Ci erano arrivati dietro invito di papa Gregorio IX, «essendo cominciati a disseminarsi in questa fedelissima città di Napoli alcuni semi di perniciosa eresia». Non disponendo ancora di una sede propria, i religiosi trovarono un punto d’appoggio nel monastero benedettino di San Michele Arcangelo a Morfisa, proprio nel cuore del centro antico. Solo nel 1283, per volere di Carlo II d’Angiò, la nuova dinastia succeduta agli svevi, iniziò ad essere edificata l’attuale chiesa di San Domenico Maggiore, la cui abside caratterizza la piazza omonima assieme alla guglia barocca dedicata al santo. In stile gotico, la nuova costruzione inglobò la precedente benedettina e con l’annesso complesso conventuale, dove studiarono Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno, divenne la casa madre dei domenicani nel regno di Napoli e tempio della nobiltà aragonese.

Innumerevoli gli interventi e le trasformazioni succedutisi fino all’Ottocento: ogni epoca ha lasciato traccia di sé, arricchendo questa chiesa di capolavori d’arte. Basti pensare che un tempo vi si trovavano opere di Caravaggio, Raffaello e Tiziano, ora trasferite nei Musei di Capodimonte e del Prado. Neppure i bombardamenti del 1943, che a Napoli hanno distrutto tanti monumenti insigni, hanno potuto depauperare questa chiesa, anzi i restauri resi necessari dai danni subìti hanno riportato alla luce nuovi capolavori come gli affreschi di Pietro cavallini nella cappella Brancaccio.

Non essendo mia intenzione passare in rassegna tutti i tesori di questo vero compendio d’arte medievale, rinascimentale e barocca in particolare, mi limiterò ad illustrare l’ambiente che più colpisce l’immaginario del visitatore: l’imponente sacrestia decorata in forme barocche tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Qui ai severi bellissimi armadi in radica di noce e a banchi in quercia fa da contrasto, nella volta, il luminoso affresco settecentesco del Solimena rappresentante  Il trionfo della fede sull’eresia ad opera dei domenicani. Ma non è tanto questo: l’attenzione viene attratta dal ballatoio ligneo con balaustra e baldacchino  che corre lungo tre lati delle pareti: struttura sulla quale appaiono in due file sovrapposte – ricoperte di raso cremisi o di velluto dello stesso colore, quando non rivestite di “lama” d’oro su fondo bianco – 45 arche sepolcrali, di cui alcune contrassegnate da stemmi, ritratti, scettri, spade: contengono le salme di vari regnanti aragonesi ed altri illustri personaggi (membri di famiglia reale, nobili ed ecclesiastici), le più piccole evidentemente corpi di bambini.

La poco allegra collezione che abbraccia due secoli, a partire dal XV, è vivacizzata dall’effetto decorativo dei drappi ricoprenti i “baulli”, come venivano chiamate queste arche. Sottoposte in anni recenti a restauro e studio, esse hanno rivelato resti scheletrici ma anche corpi mummificati rivestiti di preziosi abiti, in parte ora visibili nell’attigua sala detta del Tesoro (vi sono custoditi paramenti e oggetti liturgici di preziosa fattura, ciò che rimane delle enormi ricchezze andate perdute a causa delle vicende storiche). È possibile così ammirare “dal vivo”, per così dire, costumi e accessori quattro-cinquecenteschi che solo i ritratti d’epoca documentano nella loro preziosità e nei loro colori.

Quale esempio per tutti, ecco la descrizione del corredo rinvenuto nell’arca di Ferrandino (o Ferrante) II d’Aragona (1467-1496), il figlio primogenito di Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza che nel suo breve regno (poco meno di due anni) si trovò a combattere contro il re Carlo VIII di Francia che voleva disputargli la corona. Al momento della ricognizione il corpo del giovane sovrano, sottoposto a imbalsamazione, indossava una calzabraca di panno di lana cremisi, una camicia di lino finissimo, un farsetto imbottito, un robone o sopravveste di damasco giallo foderato di ormesino (pregevole tessuto di seta) di egual colore e un manto di ermellino: capi di vestiario solo parzialmente intatti. Il capo poggiava su un cuscino di cuoio e recava una corona (non rinvenuta) che aveva lasciato evidenti tracce sul cranio e sui neri capelli. Il volto era ricoperto da un velo con croce centrale. Sparsi ovunque frammenti di una spada con ricco fodero ricamato.

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