Le anime di Harlem
La bandiera è sempre a stelle e strisce come quella Usa, ma unico colore comune è il rosso, il sangue. Il blu e il bianco hanno ceduto al nero e al verde, il primo simboleggia il colore della pelle; il secondo la prosperità dell’Africa, che gli avi furono costretti a lasciare con crudeltà e violenza: siamo ad Harlem e su questo telo sventola l’identità afro-americana della capitale nera degli States. Lo stendardo, ideato dall’artista David Hammons in omaggio al primo sindaco nero di New York, si erge sul balcone dello Studium museum, uno spazio espositivo di oltre 5 mila mq sulla 125a strada, l’arteria che attraversa Manhattan da Est a Ovest e si incrocia con i boulevard dedicati a chi ha cambiato la storia dei neri d’America: Malcom X, il controverso attivista islamico assassinato nel 1965; Martin Luther King, il pastore protestante, Nobel per la pace e ucciso nel 1968; Adam C. Powell, primo rappresentante nero al Congresso. Basta solo la toponomastica di questi pochi isolati a raccontare la lotta per i diritti civili degli afro-americani, mentre lo Schomburg Center, proprio sul viale MalcomX, con i suoi 10 mila volumi di letteratura, poesia, documenti e foto, espone l’orgoglio della “Cultura nera” senza celare le ferite ancora fresche della segregazione razziale e della schiavitù.
Il “melting pot” delle fedi
L’appuntamento con Doris è al 104 di Lenox Avenue, di fronte alla moschea di Malcom Masjid Shabazz. La sua cupola verde domina l’incrocio e sfida sia le case settecentesche dei coloni olandesi che i campanili delle 86 chiese cristiane sparse ad Harlem. Battisti, episcopaliani, etiopi di Abissinia, metodisti neri, luterani: le 18 denominazioni presenti sul territorio hanno scelto diversi stili architettonici per i loro luoghi di culto e differenti modelli organizzativi, ma patrimonio comune sono le corali gospel che animano le celebrazioni e di cui sento l’eco pur nel frastuono del traffico. C’è persino una chiesa della metropolitana ad Harlem. Il suo pastore, con Bibbia alla mano e canti, arringa i passeggeri della linea 2 e 3, incurante dello sferragliare assordante delle rotaie. I campanili svettano sui tetti delle sinagoghe anch’esse numerose e sulle altre moschee meno imponenti di quella che mi sta di fronte, ma tutte ben in vista a testimoniare le eredità spirituali dei tanti popoli che le abitano. Aspettando la mia amica afro-americana, studio la moschea, dove fino al 1964 aveva predicato Malcom X. Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolari, l’aveva visitata 25 anni fa, prima donna bianca a mettervi piede e ad osare un patto di fraternità con l’imam di allora, W.D. Mohamed, e i suoi seguaci, musulmani sunniti che avevano visto incendiato il loro tempio dopo l’assassinio di Malcom e che con coraggio lo avevano ricostruito per ridare identità alla comunità. Qualche giorno prima, accompagnata da Tariq, testimone di quell’incontro storico, i miei piedi nudi avevano accarezzato i tappeti della sala di preghiera verde e oro, decorata su tutte le pareti con gli appellativi di Dio. Ascolto tra queste pareti umili il battito di un Islam che si fa dialogo, accoglienza degli immigrati, promozione sociale degli emarginati, pace. Tariq non si sottrae a nessuna domanda scomoda, anche sul razzismo ancora strisciante e sulle nubi che gli attentati dell’11 settembre hanno addensato sulla sua comunità. Salendo le scale, avevo notato un cartello sulla bacheca dedicata ai corsi scolastici e di formazione al lavoro: «Denunciate qualsiasi sospetto di radicalizzazione e di terrorismo».
Harlem non è più nera
In attesa di Doris, il mio sguardo si sposta sui ritratti dello scrittore James Baldwin e di Shirley Chisholm, prima donna nera eletta al Congresso Usa. Sono dipinti sulla vetrina del centro culturale Harlem Heritage a fianco del pugile Muhammad Ali e di altri eroi afro-americani.«Volevo cominciare la nostra visita dalle persone che hanno fatto la nostra storia. Fai bene a studiarle con attenzione». La voce di Doris mi sorprende alle spalle. Eccola con il suo cappellino anni ’50, scarpe da tennis, bastone e borsetta: sembra uscita da un movie e invece è straordinariamente vera, vivace e spiritosa. «Questo quartiere era stato voluto dagli olandesi nel 1658 – mi spiega –. Sono stati loro a chiamarlo New Haarlem per ricordare una loro città. Ma siamo stati noi afro-americani a trasformarlo negli anni ’20 in capitale della cultura nera grazie al movimento musicale e letterario Harlem Renaissance. Billie Holiday, Duke Ellington, W.E.B. Du Bois, Langston Hughes, Zora Hurston (e nomi che fatico a riconoscere) hanno dato orgoglio alla nostra identità». Quella di Doris è mista. Padre senegalese, madre giamaicana, andatura decisamente shake, ondeggiante, come quella di gran parte dei nativi di Harlem. Le chiedo se danza in un coro gospel o in uno hip hop. «Cantavo, come tanti qui, perché le chiese sono il nostro cuore spirituale, soprattutto ora che la gentrification ha fatto lievitare i prezzi delle case mettendo in fuga tanti di noi». Doris usa questo termine inglese per spiegare l’assalto dei nuovi ricchi, bianchi soprattutto, alle case a schiera o agli studi artistici di Mount Morris Park, il distretto storico, dove il valore di un appartamento è passato in pochi anni da 300 mila dollari a oltre un milione. I martelli pneumatici dei cantieri edili ci assordano: ristrutturano alloggi per questi nuovi inquilini.
«Harlem è sempre meno nera – mi dice Doris – e la parte Est è quasi totalmente ispanica. Solo la domenica tutto torna come prima perché gli afro-americani ora in Pennsylvania o in Massachusetts rientrano nelle loro chiese, anche se devono percorrere chilometri».
L’arte e la musica
Passeggiando per Mount Morris, sostiamo di fronte alla casa di Maya Angelou. La poetessa nera morta nel 2014 ha lasciato in eredità un’associazione che si occupa di sviluppo della comunità. Zigzagando tra i marciapiedi, scopri che questa parola si ripete ossessivamente: sui murales e sui graffiti, nei giardini comuni ricavati tra le case e all’ingresso del market vicino alla moschea. «È il nostro patrimonio», mi spiega Sabine all’ingresso dell’Apollo Theater, mentre espone i gadget dei cantanti che ne hanno solcato il palcoscenico.
«Qui ci salutiamo tutti e se un giorno mi assento, si preoccupano per me. Siamo una famiglia e chi non saluta sono i nuovi arrivati, spesso bianchi». Mi fermo sulle foto autografate di Whitney Houston, stella triste del firmamento della musica nera che sulla targa in ottone, murata sul marciapiede del teatro, brilla accanto ai nomi di James Brown, Michael Jackson, Stevie Wonder e tanti altri. Anch’io cedo a una foto accanto al nome di Ella Fitzgerald. Ma sono ancora i club la patria del jazz antico e nuovo, dallo storico Cotton Club all’originale Red Rooster: è proprio qui che scopro la foto di un giovane Obama. Il primo presidente afro-americano continua a restare un’icona, al di là di insuccessi e trionfi. Lo sorprendo ritratto, accanto a foto di politici di tutto il mondo, a gustarsi “la cucina dell’anima” di Sylvia, un ristorante che è anche un convivio culturale e politico. Troneggia sulla copertina dell’Amsterdam news, il settimanale di Harlem che continua a ristampare il numero del giorno della vittoria. «Ha fatto la nostra storia – mi dice Doris –. Lui e Michelle sono di casa». «Questo però non è bastato a mettere uno stop al razzismo», insisto. La mia amica mi guarda seria. Tutte le volte che ti senti superiore a una persona e ritieni la sua vita inutile e non necessaria, stai commettendo ingiustizia e questo non dipende dal colore della pelle. Harlem è casa di tutti e per tutti i colori». E me lo dice dietro a un murales realizzato come un collage di foto, scritte e ritagli di luoghi: è il mondo molteplice della capitale ancora afro dell’America.
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