Le alternative al riarmo per uscire dalla guerra
La corsa al riarmo comporta dei sacrifici inevitabili in termini di scelte strategiche se la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proposto di usare il Fondo europeo per la pace per concordare un piano di produzione di armamenti necessari per rifornire la difesa militare dell’Ucraina così come è stato fatto per l’acquisto dei vaccini contro il Covid.
Come ha dichiarato l’allora presidente del consiglio italiano Mario Draghi, nel suo discorso al Senato successivo all’invasione russa dell’Ucraina, siamo «entrati in un periodo completamente diverso da tutto ciò che abbiamo visto finora». Tesi ribadita in un articolo del dicembre 2022 sul Financial Times scritto dal cancelliere tedesco Scholz che parla di «uno slittamento tettonico epocale». Lo dimostra il fatto che il leader socialdemocratico ha deciso un piano di riarmo della Germania per 100 miliardi di euro così come il Giappone, altro grande sconfitto della guerra mondiale, ha già programmato in maniera più massiccia per prepararsi allo scontro temuto con il gigante cinese.
Se lo scenario è realisticamente questo, dovremmo pensare che saranno destinati a restare drammaticamente soli e a soccombere, ad esempio, i portuali del Calp di Genova che sabato 25 febbraio hanno convocato sulla banchina del porto della loro città, dove transita un flusso continuo di armamenti diretto nei teatri di guerra di mezzo mondo, una manifestazione per dire “abbassate le armi, alzate i salari”.
Sarebbero da considerare velleitari, ingenui o minati da un sottile antiamericanismo quelle migliaia di persone che si raduneranno in tutta Italia per dire che occorre aprire una prospettiva verso il cessate il fuoco per fermare il massacro e trovare una via di uscita dal conflitto.
Marco Tarquinio su Avvenire parla di un suicidio dell’Europa nel suo complesso, Russia compresa dunque, usando l’espressione di Benedetto XV che implorò inutilmente i capi delle Nazioni a fermare il mattatoio della prima guerra mondiale che è la radice delle fratture di oggi: «Non possiamo fingere di non sapere che siamo nell’era in cui le guerre le vincono – almeno per un po’, e col rischio non solo teorico di finire in massa nell’inferno atomico – solo quelli che le tengono ben lontane da casa, le armano guadagnandoci in soldi e dominio e, soprattutto, le fanno con i petti degli altri».
In questo quadro così contraddittorio si tratta di capire il peso che può avere una società civile organizzata che non accetti di farsi descrivere come velleitaria e armata di una stantia retorica sulla pace.
Tra le novità della grande manifestazione nazionale dello scorso 5 novembre, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha affrontato apertamente la questione del lavoro nell’industria bellica e di riconversione produttiva dal militare al civile.
Un discorso controcorrente che riprende un tema finora rimosso, ma già affrontato negli anni ’70 da esponenti della Cisl come Alberto Tridente e più recentemente da Gianni Alioti, per decenni responsabile dell’ufficio internazionale della federazione metalmeccanici.
Alioti è attualmente uno dei massimi esperti di riconversione industriale dal militare al civile grazie all’esperienza iniziata in Liguria dove parte della nostra industria civile d’avanguardia è stata dismessa per favorire il disegno strategico di una conversione industriale al militare perseguito dai vertici di Finmeccanica, ora Leonardo, secondo direttive politiche condivise trasversalmente dai governi italiani di diverso colore che si sono succeduti negli anni.
Una linea di politica industriale che ha visto l’opposizione anche da settori di Confindustria, come dimostra l’intervista rilasciata a Città Nuova da Stefano Zara, ex presidente dell’associazione industriali di Genova, che ha cercato di contrastare una strategia che ha accentuato il declino industriale italiano descritto da Luciano Gallino.
La riconversione industriale non è una predica, ma necessita di fondi, risorse e intelligenze. Lo aveva capito il rettore dell’università Cattolica di Milano, Giuseppe Lazzati, che promosse negli anni ’80 un centro studi dedicato alla riconversione civile del settore bellico. Uno strumento poi definanziato e abbandonato dalle successive gestioni accademiche, tanto che per un periodo fu sostenuto dai contributi volontari dei lavoratori che in Lombardia fecero obiezione di coscienza alla produzione di armi.
Negli ultimi anni grazie all’impegno del comitato riconversione Rwm in Sardegna (accanto alle reti nazionali e internazionali che lo affiancano e alla stampa indipendente), si è riusciti a fermare l’invio di bombe verso l’Arabia Saudita. Ma il piano di riarmo generale, che è partito comunque ben prima del conflitto in Ucraina, mostra che la multinazionale tedesca che controlla la Rwm non demorde dalla possibilità di espansione nel settore bellico grazie anche ad alleanze con l’italiana Leonardo sotto controllo pubblico.
Secondo una istanza condivisa dal Forum diseguaglianze e dall’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, la presenza determinante del pubblico nel capitale di società quali Leonardo, Fincantieri, Eni, Enel, Terna,ecc. non può essere quello del cassettista e cioè di un privato interessato solo al ritorno degli investimenti ma deve esigere una rendicontazione della finalità sociale dell’impresa.
I settori trainanti della transizione ecologica sono diversi da quello delle armi come mette bene in evidenza il lavoro di ricerca esposto da Andrea Roventini della scuola superiore Sant’Anna di Pisa nella relazione offerta nel seminario promosso recentemente presso il Cnel dal Forum Diseguaglianze a partite dalla tabella di marcia evidenziata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) per arrivare all’emissioni zero entro il 2050. Un traguardo indispensabile per salvare il pianeta.
È chiaro, tuttavia, che tali considerazioni sono destinate a restare lettera morta davanti ad un processo di riarmo che dura da decenni e che ha ora trovato la sua legittimazione definitiva con la guerra in Ucraina.
Il nostro Paese sembra aver abbandonato una tradizione politica fedele ad un europeismo distinto da una rigorosa fedeltà atlantista. La mancanza di un minimo dibattito pubblico sulla conferma del nuovo concetto strategico della Nato approvato a fine giugno 2022 dai 30 Paesi dell’Alleanza, non permette di delineare una linea di politica di difesa europea che non sia una costola della Nato.
La discussione aperta sul modello di organizzazione delle forze armate dei Paesi Ue dovrebbe condurre a una razionalizzazione del settore degli armamenti nel senso della riduzione dei doppioni e del superamento nella competizione delle varie imprese nazionali sui mercati internazionali con l’adozione di regole che limitano la vendita di armi ai Paesi in guerra e/o violano i diritti umani. Di fatto invece si firmano trattati bilaterali di amicizia tra Paesi come Italia e Francia che si contendono le commesse di armi come avvenuto nel recente World Defence Show che si è tenuto nel marzo 2022 in Arabia Saudita.
Tale priorità si scontra con la logica che richiede al nostro Paese di assumere un ruolo geopolitico decisivo anche se satellitare nella vasta area del Medio Oriente allargato al quale Leonardo ha dedicato una Fondazione presieduta dall’ex ministro Marco Minniti e che annovera nel comitato scientifico buona parte del mondo accademico e della cultura. Come dice con chiarezza Federico Rampini, seguendo tale ragionamento, non potremmo avere un peso nel mondo restando una “potenza erbivora”.
Ad un anno dal 24 febbraio 2022 si pone sempre più in evidenza, quindi, la necessità di un dibattito aperto sul ruolo dell’Italia e quindi dell’Europa davanti ad un mondo in fiamme. Dobbiamo rassegnarci a dire che non c’è alternativa a questo sistema e quindi alla guerra? E che l’unica strada per la pace è il riarmo, costi quel che costi?
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