Le albe di Verona

Si può costruire una mostra intorno a poche opere (una tela, sei acqueforti), in controtendenza alle rassegne attuali, inflazionate da centinaia o migliaia di “pezzi”? A Verona, intelligentemente, hanno pensato di sì. Ed ecco Bernardo Bellotto, nipote di Canaletto (e talvolta confuso con lo zio) esporsi nella Veduta di Verona con Castelvecchio a monte del ponte scaligero, anno circa il 1745. Cosa ha di diverso questa dalle altre “vedute” dei contemporanei, pure in rassegna, Antonio Joli, Giovan Battista Cimaroli, o Gaspar van Wittel? Tele puntigliosamente curate nei dettagli, anzi, in van Wittel, esemplari per la chiarezza mattutina del colore, la nitidezza della luce, che rende la “veduta” una variazione poetica del sogno e della realtà: una “fotografia artistica” diremmo oggi, che è ben altra cosa dalle “cartoline illustrate”, così di moda per i viaggiatori d’epoca: gli stranieri, appassionati del grand tour (allora tedeschi e inglesi, oggi giapponesi). Bellotto non è Guardi né Canaletto. Guardi avrebbe “visto” una Verona immensa e triste, solcata da brume malinconiche; Canaletto l’avrebbe inondata di una luce chiara, colori brillanti su un disegno minuzioso. Bernardo, viaggiatore cosmopolita come e più dello zio – e come tutti gli artisti italiani del Settecento – è anch’egli disegnatore puntiglioso, aperto a spazi che infinitizzano il paesaggio (osservare la Veduta di Verona dal ponte nuovo, 1745), indovinandone la ricchezza vitale. Ma quando al disegno si sovrappone il colore, Bernardo si commuove a narrare, indugiando sulle ombre, gli scorci, animando le “figurine”: crea, insomma, un’atmosfera particolare. Nella Veduta in mostra, l’emozione si raggiunge gradatamente, come in una musica descrittiva: l’alba che sfiora la città in parte ancora brunita, getta calore sui mattoni e le pietre del castello, fa brillare due lavandaie, muove l’acqua – non sempre increspata come in Canaletto o grigia come in Guardi – ma incolore, perché non ancor illuminata. Si narra la vita che ricomincia. Bellotto lascia in alto gli spazi del cielo, a segare in due la tela, l’infinito e poi il finito di architetture merlate, del fiume, del ponte al primo calore. È un vedutismo come narrazione d’atmosfera, contemplativo senza trasalimenti, ordinato: ricorda certe descrizioni paesaggistiche che saranno di Manzoni. La sua Verona, dunque, è la città dei traffici, il crocevia Nord-Sud di sempre: una scansione ritmata di edifici, ma trasfigurata dal fascio luminoso laterale e radente dell’alba. Che crea o ricrea il miracolo della vita.

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