Le 7 chiese libanesi

Riprendendo un’antica usanza dei cristiani romani, i fedeli libanesi, giovani in particolare, nella serata del giovedì santo passano da un luogo di culto all’altro per devozione, per tradizione, per convinzione

Era stato san Filippo Neri a rivitalizzare un’antica tradizione della Chiesa romana – la prima documentazione è del VII secolo –, quella di un pellegrinaggio che congiungeva 7 chiese romane, comprese le 4 basiliche maggiori, per concludersi al santuario del Divino amore, sull’Ardeatina. 20 km che venivano percorsi, normalmente, in due giornate. In varie parte del mondo la tradizione è stata ripresa, adattandola alle situazioni locali. Anche qui in Libano, dove il fervore dei fedeli cristiani, così come dei musulmani sunniti e sciiti e di tutte le altre minoranze, è notorio per la sua creatività e la sua tenacia.

È con un certo scetticismo, che mi porto dietro dall’Europa, che mi avvio verso il punto d’incontro d’una trentina di giovani e di adulti, soprattutto giovani, che desiderano ripetere la tradizione qui a Beirut. Un fortunale ha appena spazzato la città, ma la volontà dei partecipanti supera gli inconvenienti e la temperatura improvvisamente scesa a livelli invernali. Scopro subito che qui l’itinerario e la sua lunghezza non sono mai uguali: l’importante è fermarsi in 7 chiese, quali e dove, questo viene deciso dall’inventiva dei partecipanti. Sola condizione: che non si escluda alcun rito cristiano dalla lista delle chiese possibili oggetto delle visite. In Libano, lo sappiamo, coesistono 18 comunità diverse (una dozzina cristiane), e quindi la scelta è ampia. Altra condizione del pellegrinaggio “in salsa libanese” è che ad ogni sosta si legga un brano evangelico della Passione di Gesù e che ci si raccolga in preghiera per qualche minuto.

La prima chiesa è quella dedicata a Sant’Antonio abate, chiesa maronita, dove un gruppo di giovani della parrocchia ha imbandito un tavolo con ogni ben di Dio, perché i pellegrini possano rifocillarsi. Un giovane ventenne mi confida: «Mi aiuta far silenzio dopo settimane di studio intenso. Ritrovo me stesso».

Seconda tappa ancora un Sant’Antonio, ma Sant’Antonio da Padova, chiesa moderna di rito latino sulla via Gemmayze, la via più trendy di Beirut, una fila continua di locali e localini, esposizioni d’arte e negozi d’artigianato raffinato, nel tipico caos urbanistico della capitale libanese, con grattacieli in costruzione, deliziose vecchie dimore restaurate ad arte e rovine inguardabili. Il nostro gruppo passa tra i tavolini dei bar senza alcuna forma di sfida, né di diversità culturale: anzi, alcuni ragazzi si uniscono al nostro gruppetto peregrinante.

Mai dimenticare che anche il Libano è parte della Terra Santa. Così anche su queste strade c’è la Custodia della Terra Santa, cioè quella chiesa francescana che viene retta, appunto, dall’organismo ecclesiale preposto alla conservazione del patrimonio architettonico e spirituale della cattolicità nei luoghi di Gesù. Muri antichi a volta, odore di incenso e candele, lampadari di cristallo che contrastano con la nuda pietra sboccata delle volte. Una giovane ingegnere civile mi racconta del suo lavoro intenso e precario, qui in Libano praticamente non esiste il “posto fisso”, tranne nelle amministrazioni pubbliche: «Ogni giorno debbo affidarmi a Dio per riuscire ad arrivare a sera ringraziandolo perché ho ancora un lavoro. Anche oggi», mi spiega.

Quarta visita nella chiesa del santo forse più venerato in Libano, assieme a Mar Charbel, cioè Mar Maroun, nuovamente un luogo di culto maronita, la tradizione più “libanese” che esista del cristianesimo. Qui c’è molta gente, la Caritas locale raccoglie fondi, la pioggia si fa più intensa, fa piacere rifugiarsi in un luogo asciutto e caldo. Sotto il portico, e sotto lo sguardo vigile e austero del santo, leggiamo il passaggio della Passione che riporta l’ironia di Erode nei confronti di Gesù: «Mi fa bene – dice un ragazzo con la barba incolta –, perché proprio oggi mi sono imbattuto in un gruppo di compagni che mi ha preso in giro per la mia fede. Voglio impegnarmi a testimoniarla in modo sempre più credibile».

Nella piccola chiesa dell’Assunzione, al centro di uno dei quartieri vecchi appena restaurati del centro città, proprio accanto alla celebre via di Damasco, che durante la guerra civile segnava il confine tra la parte cristiana e musulmana di Beirut, scopriamo il rito greco cattolico, con un prete che ci traccia sulla fronte una croce con olio santo intinto in uno strano batuffolo vegetale. «Io prego perché la guerra non scoppi mai – mi confida una signora quarantenne, ben vestita e truccata, falsa bionda, tacchi 12 –. Abbiamo già pagato, dobbiamo convincerci che la pace è molto meglio della guerra».

La sesta sosta ci porta a salire i ripidi gradini della chiesa armeno cattolica del centro di Beirut, infastidita da un enorme cavalcavia che interrompe le geometrie antiche delle chiese d’Armenia. A San Gregorio e Sant’Elia vive un’altra tradizione mediorientale, proveniente da quell’Armenia che fu la prima nazione cristiana al mondo, prima di Costantino, nel 333. Qui incontro una coppia di amici che stanno compiendo tutt’altro pellegrinaggio: qui la fantasia, qualcuno potrebbe definirla improvvisazione, è pane quotidiano. La fede mediorientale e orientale si nutre di omologazioni rituali all’interno delle quali la creatività del singolo non solo viene accettata ma incoraggiata.

Infine, la cattedrale maronita di San Giorgio, proprio accanto alla celebre Piazza dei martiri e alla moschea dedicata a Rafik Hariri, ucciso nel 2005 poco lontano da qui. Il campanile e i minareti si sfidano, ma anche s’incontrano nello skyline di Beirut, che non può che essere “multi”: multireligioso, multietnico, multiculturale. Qui in Libano il dilemma aristotelico tra uno e molteplice, ripreso dal dilemma cristiano tra unità e diversità, e coronato nel dilemma della possibilità di un dialogo tra religioni diverse, è una realtà che si tocca e un orizzonte mai pienamente raggiunto.

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