Il lavoro, la guerra e la falsa realpolitik
Elio Pagani si è commosso raccontando la sua storia. Ha parlato domenica 3 dicembre al seminario che, per un’intera giornata, ha visto convenire nella città di Iglesias, in Sardegna, molti esperti e testimoni da ogni parte dall’Italia per cercare di capire come uscire dalla trappola che vede, su quel territorio, l’apparente conflitto tra la produzione assicurata da una fabbrica di ordigni utilizzati nella guerra in Yemen e la necessità di assicurare quel poco lavoro disponibile in un’economia impoverita dalla crisi.
Pagani, tecnico aeronautico, ha raccontato di un sindacato metalmeccanico unito che negli anni ’80 programmò addirittura delle «Conferenze nazionali dei delegati del settore bellico per spingere i Consigli di Fabbrica ad occuparsi di quanto e cosa nelle aziende veniva prodotto ed esportato e a proporre nelle piattaforme aziendali ipotesi di diversificazione e riconversione». Grazie all’obiezione di coscienza di questi lavoratori abbiamo oggi in Italia una legge che vieta ogni tramite di armi destinate ai Paesi in guerra. Bisogna avere gli occhi giusti per capire quando arriva una reale buona notizia: la presenza di persone disposte ad esporsi personalmente per amore di giustizia e dignità.
Oggi, tuttavia, questa conquista è in pericolo come testimonia la violazione di quella legge di civiltà, con il continuo invio di bombe in un teatro di guerra che fa strage di civili e con la presa di posizione ufficiale congiunta, a livello locale, tra Confindustria e alcune sigle sindacali dei lavoratori chimici di Cgil e Cisl che hanno affermato la non disponibilità ad ogni ipotesi di riconversione economica e produttiva.
I vertici nazionali di queste parti sociali restano muti di fronte a più di una sollecitazione al dialogo. Ha invece accettato di confrontarsi su tali temi Savino Pezzotta, che da segretario generale della Cisl, dal 2000 al 2006, ha saputo esprimere una visione del lavoro in linea con quei delegati metalmeccanici come Alberto Tridente che formarono intere generazioni alla democrazia economica oltre le mura delle fabbriche. Pezzotta ha ricoperto altre cariche importanti, è stato anche presidente del Consiglio italiano dei rifugiati (2008-2014), restando radicato nella sua esperienza iniziale (dal 1959 al 1974) di operaio tessile
A che punto è la crisi del lavoro oggi in Italia?
La crisi del lavoro è profonda e non solo economica; lambisce le culture del lavoro e le organizzazioni di rappresentanza. Il futuro è cambiato, non riusciamo più a pensare alla liberazione del lavoro perché si è compressi dalla mancanza di lavoro. Diventa difficile pensare che si possa andare oltre il presente e prospettare qualcosa di nuovo ed eticamente fondato. Capisco le prudenze del sindacato, ma credo che non possa arrendersi a pensieri che negano la sua storia e il suo impegno nel passato. Mi rendo conto che nella attuale situazione di mancanza di lavoro e della condizione particolare che investe la realtà produttiva e occupazionale sarda, sia oltre modo difficile pensare alla riconversione di una fabbrica quando sembra non ci siano prospettive.
E allora, cosa resta da fare?
Tocca alla politica indicare e perseguire certi obiettivi internazionali. Non ci si può limitare a citare l’ articolo 11 della Costituzione che recita in modo chiaro : «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Come si evince dal testo, la Costituzione non propone una sorta di neutralità, ma un impegno attivo a livello internazionale e pertanto non tocca alla politica indicare e definire i percorsi di riconversione dell’ industria delle armi. In molti casi si tratta di applicare leggi già in essere. Mi rendo conto che tali questioni siano affrontate e risolte nelle sedi in cui si definisce la politica di sicurezza, la politica di intervento internazionale e come recuperare le risorse necessarie per i progetti di riconversione dal militare al civile. Se all’indignazione morale non segue una politica coerente capace di programmare e dare vita a un percorso di riconversione, limitata o totale, delle aziende che operano nel settore militare si genererebbero condizioni che renderebbero impossibile ogni intervento.
Non esiste un dialogo tra le organizzazioni sindacali sulle politiche industriali, cioé su cosa produrre, senza lasciare mano libera alle aziende che vanno attirate, invece, con agevolazioni e incentivi
Nell’attuale situazione credo che i lavoratori comprendano la situazione, ma si sentano impotenti , soprattutto quando a rischio è il loro posto di lavoro. Il timore della disoccupazione inibisce molto più di quello che si pensa. Se non c’è un disegno politico e una mobilitazione, il rischio è che tutto resti lettera morta. Il tema della partecipazione e della democrazia economica torna alla ribalta in casi come questi, anche se si devono fare i conti con lo scempio provocato dalla cultura liberista che è penerata subdolamente anche nell’area del riformismo sociale. Chi chiede regole per il mercato finisce per essere considerato nemico della libertà e dello sviluppo. Abbiamo l’esigenza di una coerenza con quanto papa Francesco sta dicendo sull’ attuale modello economico.
Cosa si può sperare di fronte al silenzio della maggior parte dei deputati che, pur d’accordo con l’idea di non concorrere al massacro in corso, non se la sono sentita di votare la mozione di fermo all’ invio di bombe per non disobbedire alle indicazioni di partito, imperniate sui rapporti tra Arabia Saudita e Usa?
Questa situazione mi ricorda che molte volte trionfano l’opportunismo e una falsa real politik che condizionano i comportamenti. L’ho sperimentato quando con alcuni amici abbiamo presentato una mozione che chiedeva di non acquistare i cacciabombardieri F35. Non fummo molto seguiti. Oggi ci si rende conto che quell’acquisto è anche tecnicamente sbagliato. Le vicende che si stanno svolgendo in Medio-Oriente sono complicate, ma non credo che l’Europa debba assistere passivamente e lasciare campo libero alla politica di ingerenza degli Usa o della Russia che giocano solo a tutela della loro influenza. Quello che più mi colpisce è il ritiro dal campo della galassia pacifista. Forse è arrivato il tempo di risollevare la bandiera della pace.