Lavoro e delocalizzazioni

L’aumento del numero delle crisi aziendali impone di cercare soluzioni effettive per l’occupazione. La questione aperta delle politiche industriali

Da gennaio ad oggi sono cresciuti da 138 a 160 i dossier relativi a imprese in crisi presso il tavolo del ministero dello Sviluppo economico. La tensione è molto forte, anche per i ministri chiamati a dare risposte certe davanti a strategie societarie che non si riescono a contenere, come nei casi degli  spostamenti improvvisi della produzione da un Paese all’altro.

Anche Carlo Calenda, pur di provenienza confindustriale, da titolare del difficile dicastero, si espresse duramente, nel 2018, contro i vertici della multinazionale statunitense Whirpool determinati a chiudere lo stabilimento della Embraco a Torino: «Io non ricevo più questa gentaglia, perché ne ho fin sopra i capelli di loro e dei loro consulenti del lavoro italiani». Una vertenza che sembra, poi, essersi risolta con la cessione della fabbrica a Ventures, società con capitali cinesi, italiani e israeliani. Anche se il processo di riconversione sembra arrancare. Il soggetto pubblico si limita a gestire le trattative e a prestare garanzie per l’operazione di salvataggio dei posti di lavoro, ma il più delle volte interviene, anche, con fondi destinati alla reindustrializzazione dei siti produttivi.

È ciò che è avvenuto nel piano 2014 che ha accompagnato il passaggio della italiana Indesit alla multinazionale statunitense Whirpool del settore elettrodomestico. Parliamo di uno dei punti di forza del cosiddetto miracolo economico italiano guidato, fino ad un certo punto, da imprenditori, come i Merloni della Indesit, con solide radici culturali e identitarie nei territori. E, invece, dopo pochi anni, alla vigilia delle elezioni europee, è arrivata la notizia sulla decisione dei vertici Usa di licenziare oltre 400 dipendenti della loro unità produttiva di Napoli. Lo sconcerto e la rabbia dei lavoratori ha avuto modo di esternarsi nel tavolo di incontro, tra impresa e sindacati, convocato a Roma dall’attuale ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio. Ai cori e alle grida degli operai e impiegati che indossano la maglia con la scritta “Napoli non si tocca!” ha dato in qualche modo una risposta l’esponente pentastellato dell’esecutivo, che ricopre anche il ruolo di Ministro del lavoro, minacciando lo stop all’erogazione dei finanziamenti e incentivi pubblici alla società Usa che si era impegnata a rilevare l’attività produttiva mantenendo in servizio parte dei lavoratori. È questa, quindi, l’unica leva che può agire, oltre la persuasione ragionevole, la mano pubblica. Come abbiamo visto, invece, nell’ipotesi di fusione Fca Renault, il governo francese è intervenuto pesantemente nell’operazione, per ora fallita, chiedendo il mantenimento del livello dell’occupazione in Francia e un posto nel Cda della nuova società.

Non sappiamo quanto sarà decisiva la strategia della deterrenza di Di Maio e se cioè l’Italia potrà seguire, ad esempio, le indicazioni del segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, secondo il quale «abbiamo un sacco di multinazionali che vengono a fare shopping in Italia e noi abbiamo chiesto al governo di colpirle nel portafogli se se ne vogliono andare».

Purtroppo, come abbiamo più volte indicato, ci sono troppi casi di delocalizzazioni che non incontrano alcuno ostacolo reale. Come è avvenuto con la statunitense Honeywell che ha lasciato a casa, nel 2018, circa 500 lavoratori ad Atessa, in Abruzzo, offrendo solo incentivi all’esodo e confidando nella cassa integrazione. O, per restare a questi giorni, il fulmine a ciel sereno abbattutosi dalla proprietà Unilever (britannico olandese) sulla produzione Knorr, storico marchio alimentare situato nel veronese e ora in via di delocalizzazione in Portogallo.

Di solito si dice, secondo le parti sociali, che manca una politica industriale, anche se si potrebbe osservare che una certa strategia è stata comunque seguita con le recenti scelte operate sul diritto del lavoro, job act, che dovevano venire incontro alle esigenze dei capitali di ogni genere di poter investire senza incertezze. Evidentemente sono altri i fattori strutturali che possono spiegare la crescita delle crisi aziendali e l’incapacità di fermare le delocalizzazioni, anche quando avvengono all’interno dell’Italia, come nel caso del licenziamento a Roma, nel 2016, di oltre mille e 600 lavoratori della società informatica Almaviva.

I sindacati, così come Confindustria, continuano a chiedere di puntare con politiche pubbliche di sostegno e promozione delle infrastrutture oltre che all’innovazione tecnologica e organizzativa. Ma tali scelte obbligano ad affrontare la questione delle regole del deficit di bilancio definite nell’Unione europea. Tema che è stato, concretamente, parte del dibattito del recente festival dell’economia civile a Firenze. Come afferma, tra gli altri, l’economista Gustavo Piga, dell’Università di Roma Torvergata, è necessario adottare la golden rule (regola d’oro) del «pareggio per la spesa corrente assieme a un deficit fino al 3% del Pil indirizzato a investimenti pubblici su infrastrutture, anche piccole, con effetti moltiplicativi per la nostra economia».

La drammaticità delle conseguenze delle delocalizzazioni sulle persone e intere comunità obbliga ad affrontare i problemi nella loro complessità. Che diventano enormi nel caso di Taranto, dove assieme alle nuove manifestazioni di denuncia dei casi di patologie tumorali come conseguenze di passate politiche industriali, la franco indiana Arcelor Mittal, subentrata all’Ilva in amministrazione straordinaria, ha annunciato il ricorso alla cassa integrazione per 1400 dipendenti dal primo luglio. Una decisione in contrasto con l’accordo del settembre 2018 di ripresa dell’attività produttiva del polo siderurgico più grande d’Europa. E tale da riaprire il confronto sui diversi scenari possibili di radicali riconversioni economiche annunciate nelle ultime elezioni politiche.

Per approfondire: Delocalizzazioni, nodo irrisolto

Europa, quale politica economica?

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