Il lavoro tra denuncia e proposta

  Il serio impegno dei cattolici dentro la società italiana. L’appuntamento di Cagliari come occasione di un confronto. Dal numero di Città Nuova n. 9/2017      

L’Italia è un Paese in forte declino demografico dove i pochi giovani che restano hanno difficoltà a trovare un’occupazione stabile.

Ovviamente non è un discorso che vale per tutti. Senza considerare il peso dei capitali mafiosi, la ricchezza privata si concentra sempre più in poche mani mentre si allarga il numero delle persone in povertà assoluta (4 milioni e 742 mila) e di quelle in equilibrio instabile (8 milioni e 465 mila), messe in difficoltà, cioè, da qualsiasi spesa imprevista.

Non suscita indignazione, allo stesso tempo, la liquidazione da 25 milioni di euro concessa a Flavio Cattaneo, amministratore delegato, per un anno, della Tim. Nell’epoca della circolazione senza limiti di merci e capitali, il lavoro è frammentato, esternalizzato, delocalizzato e ha difficoltà ad essere rappresentato. È quindi opportuno il titolo che il comitato organizzatore della Settimana sociale dei cattolici italiani numero 48 (vedi box p. 12) ha scelto per l’evento che si svolgerà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre: “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. Recenti opere cinematografiche riescono ad esprimere il livello di dolorosa anonimia a cui si può giungere nei luoghi di lavoro, dove, davanti alla “proprietà”, il “collega” diventa un potenziale nemico nella lotta per mantenere le condizioni di sopravvivenza. “Chi ci ha comprato?” è il grido strozzato dell’operaia che, nel film 7 minuti di Michele Placido, assiste al cambio di gestione della “sua” azienda.

Storie che raccontano anche la possibile rigenerazione di un “noi” ridestato, spesso, dall’esperienza determinante dell’essere madri e padri. In questo senso si comprende la proposta di Alessandra Smerilli, economista e suora, di porre un limite al lavoro per ridare spazio alla cura di sé e degli altri come «due dimensioni coessenziali della vita, che ci rendono più umani».

Economia disumana

Papa Francesco è il primo ad opporsia “un’economia che uccide”, impegnandosi a cambiare le strutture disumane che producono vittime e carnefici, come recita l’edizione 2017 di Loppianolab. Il vescovo di Roma invita a lottare, «mossi dall’amore fraterno», a favore della giustizia sociale, come ha detto negli incontri con quei movimenti popolari che radunano, al loro interno, esperienze di mutuo aiuto, tra i lavoratori, simili agli esordi del sindacato, ma anche le imprese recuperate (workers buy out, in inglese) e cioè associazionidei dipendenti che acquistano e cercano di gestire in maniera condivisa le aziende in crisi o fallite che li hanno espulsi. Come ha detto a Città Nuova Andrea Ranieri, voce autorevole di una travagliata sinistra politica, «il fascino del messaggio di papa Francesco, per i credenti e per i non credenti è di essere l’unico a parlare agli sfruttati di tutto il mondo. Un’alternativa a questo sistema può nascere solo se coltiviamo il “noi” dovunque si manifesti. Mi ha riempito di speranza, ad esempio, lo sciopero domenicale dei lavoratori dell’outlet di Serravalle Scrivia che hanno contrapposto il loro diritto collettivo al giusto riposo non solo ai datori di lavoro, ma anche ai “diritti”, gli unici considerati intangibili, del consumismo individualista».

L’opposizione al lavoro festivo non indispensabile èconsiderata una risibile ossessione anche da molti credenti. Eppure, come afferma l’economista Luigino Bruni, bisogna saper riconoscere l’insidia di una «cultura centrata sul consumo che non vede più il lavoro nascosto dietro i consumi, o se lo vede lo assoggetta e asservisce all’idolo sempre affamato. È la sovranità del consumatore la sola sovranità riconosciuta ai cittadini-fedeli del  mono-culto  consumista, che sta seriamente minando la cittadinanza politica. È il lavoro per il consumo idolatrico che nega la festa e nega il lavoro».

Si può infatti condividere la centralità  della  persona  umana ma avere idee diversissime circa le politiche da adottare, a cominciare dalle riforme della legislazione sul lavoro introdotte in Italia, fino al cosiddetto Jobs Act.

Le leve reali della buona occupazione

A fine ottobre, ad esempio, sarà in discussione l’ultima legge di stabilità prima delle elezioni nazionali di inizio 2018. Confindustria ha già chiesto 10 miliardi di euro come spesa straordinaria per assumere 900 mila giovani nelle aziende grazie a 3 anni di totale sgravio fiscale e contributivo. Secondo Romano Prodi, certo non un estremista, «le misure temporanee hanno effetti limitati sul futuro della nostra economia. Solo una prospettiva di occupazione stabile può dare concretezza al necessario aumento dei consumi». Per «dare prospettive migliori ai giovani e ai meno giovani» occorre, quindi, «che il lavoro “stabile” costi sensibilmente meno di quello precario».

Sembra un’ovvietà e invece prevale ancora l’idea che associa la crescita dell’occupazione alla facilità dei licenziamenti. Il sociologo Luciano Gallino la definiva una tesi superata, ferma alle direttive Ocse del 1994, ma utilizzata come alibi per trasferire ricchezza dalle tasche dei lavoratori a quelle delle società irresponsabili, non disposte ad investire in ricerca e innovazione. Lo studioso torinese aveva conosciuto l’impresa di Adriano Olivetti, che resta il modello alternativo alla logica della speculazione.

Papa Francesco commentando, a maggio 2017, le grandi difficoltà espresse da un imprenditore del distretto navale di Genova, ha affermato che «qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro». Secondo una recente analisi di Prodi, affrontata in molti seri dibattiti, assistiamo alla scomparsa, in Italia, di grandi società in grado di affrontare la nuova globalizzazione. Resistono alcune centinaia di medie imprese con livelli di efficienza simili o superiori a quelle tedesche,rimaniamo la seconda nazione manifatturiera in Europa. Ma senza investimenti in innovazione ericerca rischiamo un tracollo, mentre le aziende straniere, grazie a consulenti italiani, acquistano ai saldi le nostre attività migliori. Una deriva che si può scongiurare grazie a un piano strategico condiviso, in grado, ad esempio, di utilizzare le risorse disponibili nella Cassa depositi e prestiti.

Come ha detto a Città Nuova Enrico Giovannini, tra i maggiori esperti di economia e statistica, siamo «dentro una stagnazione secolare, dove non basta mettere i soldi nelle tasche dei cittadini per far ripartire i consumi». Occorre partire dal riconoscimento del valore delle persone e dalla formazione. Le famiglie agiate continuano, infatti, a investire nell’istruzione dei figli, ma, a partire dal 2008, la spesa pubblica italiana dedicata alla formazione universitaria è scesa del  21% mentre in Germania saliva del 24,5%.

Quale lavoro?

Esistono, quindi, abbondanti elementi per arrivare, da Cagliari, a promuovere, come promesso dal comitato scientifico, proposte concrete in ogni sede, anche parlamentare, partendo dalla denuncia, non sterile, “del lavoro che non c’è o è precario”. Come dice Francesco Occhetta, gesuita scrittore de La Civiltà cattolica e componente del comitato direttivo delle Settimane sociali, «il tema lavoro tocca aspetti di fondo della politica».

Dal livello del dibattito potrà emergere, ad esempio, un confronto sulla diffusione ventennale del lavoro interinale o in somministrazione, cioè quello che vede impiegati uno accanto all’altro, nei cantieri come negli uffici, persone che, tuttavia, non hanno lo stesso contratto e retribuzione e datore di lavoro. È un efficace strumento moderno o una causa della frammentazione esistenziale che finisce per appaltare le persone?

Altre domande emergono dal lavoro  servile  in  agricoltura. Basta la giusta repressione del caporalato oppure bisogna andare alle radici del sistema dei prezzi delle merci imposto dalle grandi reti commerciali o dalle mafie? Tra le questioni più dibattute ultimamente  c’è  l’introduzione dei robot destinati a sostituire gli esseri umani sul lavoro. Le tesi apocalittiche, che vedono milioni di disoccupati ridotti a mendicare un sussidio, si scontrano con chi lo considera l’occasione per creare una migliore occupazione. Si citano le migliaia di assunzioni in Italia decise da Amazon, gigante della vendita per corrispondenza. Il nuovo lavoro è migliore di quello dei librai e degli agenti? O non sarà simile a nuove insostenibili catene di montaggio descritte da alcune inchieste sulla multinazionale di Jeff Bezos? Ecco allora l’importanza di partire dall’ascolto e dalla denuncia per arrivare a proposte concrete. Un cammino che esige capacità di dialogo e confronto. Come nel caso che accade vicino Cagliari, nel Sulcis Iglesiente, dove una parte della cittadinanza, sostenuta da reti nazionali di società civile, chiede la fine della produzione  sul territorio di bombe destinate alla guerra in Yemen e la reale riconversione economica in grado di salvaguardare e far crescere l’occupazione, sottraendo il lavoro ad un ricatto insostenibile. Un percorso che la Settimana sociale può prendere seriamente in esame perché, come afferma il vescovo di Taranto, Filippo Santoro, che presiede il comitato, «è degno il lavoro che rispetta e fa crescere la vita».

Settimane sociali

Appuntamento nazionale a cadenza pluriennale sorto nel 1907 su iniziativa dell’economista Giuseppe Toniolo per applicare la Rerum Novarum di Leone XIII, prima enciclica sociale della Chiesa. Un tempo che trova i cattolici schierati su fronti opposti nel campo sociale e politico, come testimonia lo scioglimento, nel 1904, dell’associazione (Opera dei Congressi) che li aveva tenuti assieme fin dal 1874.  Una nuova fase, introdotta nel 1945, si interrompe dopo l’edizione di Brescia del 1970, incentrata su “Strutture della società industrializzata e loro incidenza sulla condizione umana”.  Nel 1991 riprende il percorso che arriva a Cagliari 2017. L’evento precedente, avente a tema la famiglia, si è svolto nel 2013 a Torino, città operaia in cerca di identità.

 

I cercatori di lavOro

Alcune domande all’economista Leonardo Becchetti, autore, tra l’altro, del dossier Povertà di Città Nuova e membro del comitato scientifico della Settima sociale.

Che rapporto esiste tra lavoro e diseguaglianza? Il futuro del lavoro dipende dalla capacità della politica di redistribuire la ricchezza. Di fatto assistiamo ad una competizione scorretta tra le grandi società globali che sfuggono al prelievo fiscale nei Paesi dove producono e le medie imprese che restano legate al territorio creando beni e lavoro. Il problema della disoccupazione è fiscale e non tecnologico.

Eppure c’è chi parla di ripresa dell’economia… L’aumento di certi indici si può spiegare in parte con la precarietà del lavoro. La crescita prodotta dall’innovazione tecnologica, in media il 3% all’anno, va tassata e redistribuita per generare nuova domanda e nuovi lavori. La questione della lotta all’elusione fiscale globale è quindi quanto mai urgente Al livello dell’Unione Europea non ci si può far concorrenza al ribasso attraverso paradisi fiscali interni e, poi, imporre l’austerità e il rigore di bilancio.

Si parla invece di abolire anche la tassazione sulle transazioni finanziarie introdotta da poco in Italia… La misura andrebbe perfezionata per colpire i movimenti di denaro ad alta frequenza dettati da pratiche speculative. Una tassa del genere (Stamp duty), molto più elevata, vige a Londra senza creare problemi. Davanti alla crescita della povertà abbiamo bisogno di politiche fiscali mirate per alimentare la ripresa degli investimenti. Minimizzare i costi di transazione delle operazioni finanziarie non è un bene in assoluto. Negli Stati Uniti all’origine della crisi finanziaria globale ci furono proprio costi di transazione irrisori sull’acquisto di case che crearono le speculazioni e la bolla il cui scoppio provocò il crollo dei subprime.

Qual è il fine del progetto “Cercatori di lavOro” che sarà presentato a Cagliari? Abbiamo censito, al momento, 400 realtà presenti sui territori che dimostrano il “di più” che già esiste e rappresenta un modo per reagire al clima di depressione che si respira nel Paese. Non possiamo abbandonare il settore manifatturiero, popolato da aziende medie a forte legame interno, che può competere a livello globale assicurando lavori di qualità. Siamo anche i primi al mondo per patrimoni artistici e ambientali, beni comuni non delocalizzabili capaci di produrre ricchezza da condividere. Il progetto Cercatori di lavOro deve essere un punto di partenza per un vero movimento “popolare” che continui a partecipare, informarsi, condividere, monitorare e valutare buone pratiche. Mettendo in moto un circuito virtuoso di cittadinanza, formazione e innovazione per la creazione di lavoro sostenibile. È l’unico vero antidoto al populismo e alle passioni tristi.

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