Lavoratori dei call center in cerca di ascolto
Non ce la fanno più. Il lavoro degli addetti ai call center è minacciato dalla sempre possibile delocalizzazione all’estero come dai ribassi negli appalti del servizio di assistenza telefonica. Nel tempo dell’automazione spinta, esiste ancora la necessità della persona in carne e ossa pronta a rispondere e dare consulenza telefonica oppure a procacciare clienti. Solo che anche questo “fattore umano” del ciclo produttivo rappresenta un costo da contenere con il subentro di collaboratori situati in Paesi dove il lavoro costa molto di meno.
Lo sanno bene molto bene gli utenti statunitensi o britannici che, grazie alla lingua, ricevono assistenza da operatori che rispondono dall’India o dalla Thailandia. Lo sanno benissimo anche i dipendenti italiani della spagnola Sitel che per gestire i clienti della Toshiba ha pensato bene di chiudere la sede di Milano e spostare il tutto a Belgrado, nel centro multilingue dove un lavoratore guadagna 400 euro al mese invece delle mille e duecento del “collega” lombardo. Sono già diecimila gli addetti ai call center che rispondono in italiano dall’Albania, mentre cresce il numero dei centri organizzati in Romania e Tunisia. Con tale andazzo si prevede la perdita in pochi mesi di altri diecimila posti di lavoro sui 90 mila offerti dal settore.
Tutto si gioca tra società cliente del servizio (spesso una pubblica amministrazione) e l’azienda che deve investire sulla piattaforma informatica e su un insieme di operatori flessibilizzati e performanti raccontati da una ormai ricca produzione letteraria, filmica e sociologica.
Migliaia di voci senza volto e storia che hanno deciso di diventare riconoscibili e di manifestare a Roma il 4 giugno per chiedere regole certe e contrastare la delocalizzazione, ma, alla radice, per una questione di dignità.
In tante lettere aperte inviate in questi anni alle massime istituzioni, a cominciare dal presidente della Repubblica, i lavoratori parlano non solo delle loro famiglie appese a un filo ma si pongono, in maniera ricorrente, una domanda: «come mai nessuno tra opinionisti televisivi e insigni economisti si pone il problema dei miliardi persi dal fisco italiano a fronte delle migliaia di aziende nazionali che hanno deciso di delocalizzare negli ultimi decenni?».
La Camera, che ha avviato una commissione di indagine sul lavoro nei call center, ha cominciato a sentire le varie parti in causa. Ad esempio l’amministratore delegato della Com Data, ha affermato che la priorità consiste nella modifica della tassazione come l’Irap che fa aumentare il costo del lavoro: «Siamo società che investono quasi interamente nel lavoro, contrariamente a quelle manifatturiere che hanno un rapporto inverso, anche in assenza di utili arriviamo a pagare Irap su un imponibile che va dall'80 al 100 per cento del fatturato». A parere del presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano, è opportuno prevedere sconti Irap per il settore ma è necessaria «l’introduzione del costo orario minimo garantito negli appalti al massimo ribasso e l’applicazione delle norme già esistenti per scoraggiare la delocalizzazione selvaggia». Il riferimento è la corretta applicazione della direttiva europea (2001/23/CE) mirata a contrastare le delocalizzazioni.
La questione centrale, come sempre, è quella su cui insistono i sindacati di puntare su fattori difficilmente delocalizzabili come «qualità, efficienza e innovazione» mentre la pratica vede aziende che mettono i dipendenti in cassa integrazione mentre spostano altrove la produzione.
Come sempre resta difficile comprendere i motivi che obbligano i lavoratori dei call center a dover affrontare i rischi di uno sciopero, con relativa perdita di retribuzione, per poter sostenere elementari e ragionevoli richieste per l’intera collettività. Eppure in tante iniziative di protesta creativa come i flash mob già avvenuti negli anni passati in diverse piazze d’Italia, molte delle persone che lavorano nei call center affermano di aver sperimentato una nuova percezione del legame sociale. Come ha detto la lavoratrice Anna Maria Bova di Napoli riportata sul sito de L’isola dei cassintegrati: «È stata una bella iniziativa, partita dai lavoratori. Potevo leggere la gioia nei volti dei miei colleghi per essere lì in piazza. Uniti, senza colori né bandiere, per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul problema della delocalizzazione. La maggior parte delle persone non sa neanche cosa sia la delocalizzazione, e non tutti quelli che lo sanno conoscono le reali conseguenze».