L’avaro: com’è contemporaneo il classico di Molière
Tutto parla dell’oggi, di una società sottomessa ai miti del successo e del denaro, dove anche i sentimenti e i rapporti, i desideri sono guidati dall’interesse.
Ne L’avaro di Molière il denaro per cui tutti si accapigliano, e per il quale qualcuno è pronto a sacrificare la felicità, è solo il segno di una posizione sociale spesso volgare, rinchiusa nelle mura asfittiche della propria casa. Nella bellissima scena prospettica di grandi quadrati fluttuanti che forano il buio, il regista e interprete Arturo Cirillo ne evidenzia l’ossessione, soprattutto del farlo e del conservarlo, unico valore su cui valutare la propria vita e quella degli altri. Lo stesso regista veste magnificamente i panni di Arpagone accentuandone la vecchiaia: paranoico, malvagio, irriducibile.
Attorno a lui si muove quel mondo di figli vanesi, adulatori professionali, ipocriti, non meno avidi e interessati del tirchio per eccellenza. La cassetta di monete rubata, appena restituita, lo vedrà con la testa infilata dentro di essa che già dall’inizio risulta vuota. Rannicchiato a terra, si blocca in quel gesto possessivo, senza dire più nulla. E con la sua corte sullo sfondo. Leggera ed elegante nei costumi che sfumano come i colori di Rothko, la commedia – al suo terzo anno di repliche e con un cast ben affiatato – corre tutta di un fiato, culminando, nel moltiplicarsi dei riconoscimenti, in un siparietto napoletano che ha spostato la vicenda dalla Parigi originaria.
“L’Avaro”, regia Arturo Cirillo, traduzione di Cesare Garboli,conArturo Cirillo,Michelangelo Dalisi, Monica Piseddu, Luciano Saltarelli, Antonella Romano, Salvatore Caruso, Sabrina Scuccimarra, Giuseppina Cervizzi, Rosario Giglio, sceneDario Gessati, costumiGianluca Falaschi, luci Badar Farok, musicheFrancesco De Melis. Al teatro Due di Parma fino al 22; il27 a Gorizia, Teatro Verdi; il29 e 30 a Novara, Teatro Coccia; dal2 al 13 aprile a Milano, Teatro Carcano.Produzione Teatro Stabile di Napoli e diMarche Teatro – TSM.
Dalle note di regia di Arturo Cirillo – L’avaro è Arpagone, ma gli altri, cosa sono gli altri? Quale spazio è concesso all’alterità in questa casa corridoio dove tutto è ansiosamente osservato dal suo padre padrone? Tre sono i figli di Arpagone: Cleante, Elisa e la cassetta, ma solo l’ultima è stata “partorita” da lui stesso. Gli altri sono i figli di una madre morta, figli nemici vissuti come sottrattori di giovinezza ed amore, ancor prima che di denari. Mariana, la ragazza che si fa comprare dal vecchio avaro, per intermediazione della ruffiana Frosina, è forse l’ultimo anelito di vitalità, la battaglia finale per dare scacco matto al mondo e alle leggi della natura. Pornografia senile in cui “l’eretto” deve essere solo lui, gli altri li si lascia prigionieri dei loro ruoli, costretti a fare la commedia, mentre lui allude e depista. Solo i servi, non prendendolo sul serio, potrebbero farlo fuori, e non è casuale che sia l’anarchico Saetta a rubargli la cassetta, ma essi però sono pur sempre servi. Insomma gli altri senza Arpagone non si sa bene di cosa possano parlare, di cosa occuparsi. È come l’abitudine, secondo la definizione di Samuel Beckett: il collare che tiene legato il cane al suo vomito. Tutti lo schifano, ma tutti ne sono legati, quasi al guinzaglio, e alla fine, quando l’operetta delle agnizioni li scioglie dal legame, loro, finalmente liberi dove andranno? I vari figli, commissario, ruffiana, futura sposa, cuoco e cocchiere, vecchio nobile napoletano, domestico travestito, di cosa riempiranno ora le loro giornate senza più questo sottrattore di vita? Adesso gli toccherà viverla la vita, diventando Arpagoni loro stessi o magari liberandosi del cappio dell’avere, del possedere, di quello che è oggi il nostro esistere.