L’Avanguardia americana (1945-1980)

In mostra, al Palazzo delle Esposizioni a Roma, gli artisti statunitensi che dal dopoguerra agli anni Ottanta hanno espresso l'ansia della civiltà consumistica
Pollock

Jackson Pollock ha dipinto Number 18 nel 1950. Son passati oltre sessant’anni da allora. Ma l’olio e smalto su masonite affascina forse più dell’epoca. Quel groviglio di segni, di ragnatele colorate da lazzi vorticosi è un’esplosione delle forze – o delle furie – dell’anima che, più che sgomentare, piace terribilmente. La disintegrazione della forma, in cui certo lui non è il primo né sarà l’ultimo, l’ossidazione del figurativo, resta di un’attualità stringente e capziosa. Pollock il furioso è spavaldo, angosciante. Ma, a dispetto di quel che sembra, non confuso, perché da quell’intreccio tutt’altro che inestricabile, spunta il sangue della mente e del cuore, come pochi artisti han saputo raggiungere nel Novecento. È il rifiuto della sicurezza del mondo consumistico.

Viaggia sulla stessa onda, anche se con stile diverso, Robert Rauscenberg. Nel 1963 dipinge Barge (Chiatta): olio e inchiostro segnato su tela. Immensa distesa rettangolare in cui le onde, o meglio le cascate in bianco e nero intenso, dicono il flusso della chiatta, evocata più che descritta. Rauscenberg è come Pollock, uno che usa il dissolvimento della forma ma non la frantuma, la sconvolge dal di dentro.

L’arte americana di quegli anni è infatti una polverizzazione di ciò che esiste. Inconsciamente, non sarà il frutto della “bomba atomica” lanciata dagli Usa su Hiroshima? Non vedranno gli artisti quell’atto ripetersi nella società? Il Disastro arancione di Andy Warhol del ’63, nell’ossessiva ripetizione di un interno, quasi foto color seppia, è ossessione vera di una casa (una patria, un mondo, una civiltà?), dove gli uomini non abitano più.

 Dove arrivare allora, in mezzo alla bomba dell’arte che tutto sommuove? A un Nulla. Che si esprime in una presenza-non-presenza come il Senza Titolo di Robert Morris (1973), dove un panno di feltro sospeso è tutto e niente, secondo come il visitatore se l’immagina; o nel Fiore bianco di Agnes Martin (1960), in cui i petali sono distillati in migliaia di segmenti a dare il senso dell’immortalità di ciò che esiste o si vorrebbe esistesse.

Nell’immediato dopoguerra e fino agli anni Ottanta, gli artisti sperimentano di tutto, danno vita – e vorrebbero forma d’arte – a cose, oggetti, foto, macchine, nature, indistintamente. Disordine, confusione? Chissà. I Guggenheim hanno colto ciò che vi si agitava al di sotto. Ossia, che la sperimentazione non era fissata sull’arte di stupire e di stupirsi tout court, ma cercava di esprimere l’ansia di una vita diversa, di un nuovo – la civiltà tecnica estremizzata – che pure non soddisfaceva del tutto.

Si poteva allora esorcizzarla, deriderla, brutalizzarla, farla esplodere, come Pollock, o suggerirle ancora una volta una via d’uscita nel colore puro come la Canzone di aprile (1969) di Kenneth Noland. Una canzone, appunto. La pittura canta, come tanta musica dell’epoca. E questa mostra così panoramica e intelligente, ardita e scioccante, tranquilla e desueta, è un canto polifonico a un tempo che è stato e che verrà. Perché il presente si è già frantumato.

Il Guggenheim; Roma, Palazzo delle esposizioni; fino al 6/5 (catalogo Skira).

 

 

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