Chi è l’autore: l’artista o l’algoritmo?
Quello dell’arte digitale è un mondo nato con lo sviluppo di software dedicati all’elaborazione delle immagini e cresciuto in maniera direttamente proporzionale alla capacità computazionale delle macchine. Si è passati dalla rappresentazione di figure in due e tre dimensioni alla realtà virtuale e agli ologrammi, permettendo una sempre maggiore interazione con il pubblico, in un’esperienza di fruizione via via più immersiva.
Gli strumenti alla base dei nuovi processi creativi non sono pennelli, tavolozze o scalpelli, ma programmi e dispositivi specifici, filtri digitali e algoritmi di Intelligenza Artificiale (IA). Alla creatività umana sono state affiancate le potenzialità della macchina, aprendo nuove riflessioni sul rapporto fra le componenti alla base del processo creativo.
Ogni opera esposta a Palazzo Strozzi si poneva effettivamente come frutto delle nuove forme di interazione fra l’artista e la macchina, a partire da quella che apriva la mostra: “Machine Hallucination – Renaissance Dreams” [3] (del designer turco Refik Anadol). Visualizzata su un monumentale schermo alto 9 metri, l’opera è il risultato dell’elaborazione, con una apposita rete neurale, di uno specifico set di migliaia di dipinti realizzati fra il XIV e il XVII secolo. L’intento dell’autore è quello di provare a vedere l’insieme dei dipinti antichi attraverso gli occhi di una IA, mostrando una possibile trasposizione della pittura rinascimentale nell’universo digitale, realizzando così un ponte fra passato e futuro e proponendo nuovi punti di vista per mettere in discussione la nostra comune percezione del passato. Sullo schermo l’osservatore vede muoversi una scultura tridimensionale “viva”, in continuo mutamento, che cambia il proprio aspetto nutrendosi di questi dati in un caleidoscopico movimento di forme e di colori, tanto ipnotico quanto immersivo per lo spettatore.
Altre opere vedono fondersi in un’unica rappresentazione poesia, immagine e suono, come in “Arcadia” (dell’argentino Andrés Reisinger) – un cortometraggio, proiettato su tre schermi diversi e disallienati fra loro, il cui soggetto è una riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo nel XXI secolo – o come nella singolare rappresentazione digitale di un busto in 3D (dello statunitense Daniel Arsham) che continua a mutare lentamente nel tempo, riformulando il concetto di erosione e trasmettendo un senso di mutazione perpetua delle cose.
Il contatto con ogni quadro digitale sembra scardinare nell’osservatore il senso del tempo legando il passato al futuro in una sorta di presente esteso e fa immergere lo spettatore in qualcosa che muta ed è contemporaneamente immutabile.
Le opere di Beeple (pseudonimo di Mike Winkelmann) – presente all’esposizione con alcune delle 5000 immagini che compongono il collage digitale “Everydays: the First 5000 Days” – ci permettono di tornare al tema della speculazione nata attorno agli NFT. Venduta dalla nota casa d’aste Christie’s nel 2021 per 69 milioni di dollari [4], l’opera di Beeple ha segnato un prima e un dopo per la Criptoarte e le sue valutazioni. Fa riflettere il constatare che uno degli intenti dell’autore sia stato proprio quello di mettere provocatoriamente in luce l’irrazionalità dei movimenti di un mercato basato sulla speculazione.
L’irrazionalità, più in generale, è un elemento che traspare in tutte le creazioni dell’arte digitale: esse sembrano infatti rimettere in discussione tutto, in senso decentrato, dinamico, multi-prospettico, rispecchiando in ciò la condizione culturale attuale, che a sua volta manifesta la condizione esistenziale prevalente nell’Occidente a cavallo fra il secondo e il terzo millennio. Uno spirito incarnato particolarmente nelle espressioni creative delle generazioni nate fra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, le stesse alle quali appartengono gli artisti che hanno esposto a Palazzo Strozzi. L’intuizione artistica, del resto, è figlia del proprio tempo e i creativi mettono a frutto ciò che la propria inventiva gli suggerisce sulla base delle proprie “visioni” e degli strumenti tecnici a disposizione.
Fra tutti gli strumenti disponibili nell’era digitale, l’algoritmo (qui da intendersi nel senso di “procedimento automatico”, come quello operato da una IA) è eccellente nel permettere l’estensione della creatività dell’artista, ma a volte sembra sostituirsi ad essa. Come nel caso del “ritratto di Edmond de Belamy” [5], che porta (provocatoriamente) come firma l’algoritmo di IA che lo ha generato nel 2018. La provocazione – e anche la malcelata furbizia dei suoi autori – ha portato con sé un senso di novità che ha avuto l’effetto di rendere quel ritratto uno dei primi esempi di speculazioni economiche in fatto di arte digitale.
Il tema complesso della creatività operata da una IA andrebbe affrontato in maniera più ampia, ma chi ha avuto modo di visitare la mostra “Let’s get digital” ha potuto percepire chiaramente, alla fine del percorso, che dietro le capacità generative di una IA c’è sempre l’intenzionalità e la preparazione di uno o più artisti in carne e ossa. Il processo creativo della macchina, in sé priva di emozioni, è sempre innescato e addestrato da una insostituibile figura umana che, attraverso il suo vissuto e la propria interiorità, è capace di esprimere un significato e generare bellezza. Se, in futuro, una IA fosse ipoteticamente capace di dare forma alla propria creatività sulla base di sentimenti propri, allora si apriranno nuovi interrogativi, ma per ora il vero e unico artista rimane l’uomo. La creatività della macchina non può essere confusa con il processo creativo vissuto dell’artista, la cui originalità rimane caratterizzata da una “cifra” tipicamente e genuinamente umana.
[3] R. Anadol – Machine Hallucination – Renaissance Dreams 2022, (Palazzo Strozzi, Firenze)
[4] Beeple dopo gli NFT (02/08/2022)
https://www.ilpost.it/2022/08/02/beeple-dopo-nft/
[5] Is artificial intelligence set to become art’s next medium? (12/12/2018)