L’attualità di don Minzoni
Pensando alle chiese generalmente sempre più vuote che animano di questi tempi un certo dibattito culturale in Italia non può non presentare tratti di grande attualità la storia di don Giovanni Minzoni, martire antifascista nel 1923. Oltre 100 anni fa il giovane prete si ritrovò ad iniziare la sua missione ad Argenta, cittadina del ferrarese dove i cattolici erano una piccola minoranza davanti all’avanzata progressiva di un nuovo credo socialista fortemente anticlericale e ateo. Un messianismo che attirava la gente dei campi attirata dal contrasto delle ingiustizie sociali dei latifondi terrieri.
Giovanni Minzoni, nato a Ravenna nel 1885, aveva ben chiaro, come ha lasciato scritto nei suoi diari, l’urgenza di una riforma radicale della Chiesa e la lentezza dell’istituzione che era chiamato a rappresentare. Già da studente faceva parte di quell’area di cattolici che si riconoscevano nelle idee innovative della prima Democrazia Cristiana promossa da Romolo Murri, sacerdote scomunicato nel 1909 dal papa PioX proprio nell’anno dell’ordinazione di Minzoni.
Si può, quindi, immaginare lo smarrimento e i dubbi che attraversarono la coscienza del novello presbitero, trovatosi poi ad affrontare il trauma della prima guerra mondiale con la chiamata alle armi che egli accettò senza iniziali riserve, proprio in continuità con la linea interventista promossa dalla lega dei democratici cristiani di quei tempi.
Un’esperienza durissima, prima nei reparti di sanità e poi come cappellano militare, che lo segnò profondamente e da cui uscirà con una medaglia d’argento al valor militare con la quale tornò ad Argenta per continuare le azioni intraprese in campo sociale, con la formazione di cooperative, ed educativo, con l’avvio delle formazione dei giovani esploratori cattolici.
Ma negli anni del primo dopoguerra, fomentato dalla violenza accumulata sulle trincee, si affermò il dominio delle formazioni fasciste imposto con la brutalità dalle squadre di arditi e militi guidati dal ras ferrarese Italo Balbo, uno dei cosiddetti quadrunviri della “marcia su Roma” del 1922, l’unico in grado poter insidiare il primato di Mussolini.
Don Minzoni avrebbe potuto fare, come altri, la scelta dell’adesione, convinta o semplicemente realista, alla nuova ideologia capace di soppiantare l’egemonia di socialisti, repubblicani e anarchici. La sua esperienza in guerra gli apriva la strada al ruolo di cappellano centurione della “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale”, ma il parroco di Argenta espresse in maniera chiara e aperta la profonda contrarietà al nuovo regime in formazione e anzi si convinse ad aderire al Partito popolare che, dopo alcuni tentennamenti, assunse la posizione antifascista di don Luigi Sturzo, il fondatore convinto poi dal Vaticano ad andare in esilio all’estero su pressione del “duce”. Un decisione, quella del prete di Argenta, così descritta in una lettera ad un amico: «Quando un partito (fascista), quando uomini di grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano una idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».
Minzoni non solo difese fino alla fine la libertà dell’esperienza cooperativa avviata con i lavoratori di Argenta e l’autonomia educativa del gruppo Scout, ma denunciò apertamente l’assassinio di Natale Gaiba, l’esponente più autorevole dei socialisti con il quale aveva avuto anche dei contrasti, trucidato nel 1921 in un raid delle milizie nere.
La notte del 23 agosto 2023 due sicari aggredirono a bastonate il giovane Enrico Bondanelli e don Minzoni che rimase ucciso poco ore dopo per le conseguenze di un colpo diretto alla nuca. Soccorso e trasportato in canonica e riuscì a dire le sue ultime parole: «a cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo».
Gli autori del delitto appartenevano alla milizia di Balbo ma il caso fu rapidamente archiviato su pressione dello stesso ras. Come ha ricostruito lo storico Alberto Preti, la stessa stampa cattolica filofascista diede poco rilievo alla morte violenta di don Minzoni mentre agenti della milizia misero in giro ad arte voci su segreti moventi passionali del delitto (una pratica denigratoria adottata abitualmente dalle mafie).
La solitudine e l‘abbandono sperimentato dal giovane parroco di Argenta, che nel frattempo aveva riportato le persone a frequentare la Chiesa, esprime il compimento di una scelta integrale di fede che ora, a 100 anni da quei fatti, ha portato ad iniziare il processo di beatificazione di don Minzoni, il quale non merita tuttavia di essere confinato in qualche altare lontano.
La sua vicenda presenta, infatti, dei nodi più che mai attuali.
La vicenda giudiziaria che lo riguarda fu, infatti, riaperta nel 1924 grazie alla denuncia de La Voce Repubblicana e del coraggioso direttore de Il Popolo Giuseppe Donati che chiamarono in causa la responsabilità di Italo Balbo come mandante dell’omicidio in un momento in cui, dopo lo scandalo del rapimento e uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, sembrò che il regime attraversasse un momento di crisi.
Scenario che cambiò tuttavia rapidamente tanto che il processo si chiuse con l’assoluzione di mandanti ed esecutori dopo intimidazioni a testimoni e giornalisti. Una sentenza vergognosa annullata dalla Cassazione nel 1946. Il nuovo procedimento si chiuse, però, nel 1947 con la condanna per omicidio preternintenzionale ( fu accolta la tesi della volontà dei rei di punire il dissidente senza intenzione di ucciderlo) ma anche questa pena ridotta rimase inapplicata per il sopravvenire dell’amnistia.
È legittimo chiedersi l’effetto di reale pacificazione nazionale perseguito con la decisione di chiudere i conti con i crimini perpetrati durante il regime tramite la cosiddetta amnistia Togliatti (ministro della Giustizia nel 1946). Senza voler dimenticare la prassi passata sotto il nome dell’”armadio della vergogna”, relativa cioè all’insabbiamento delle pratiche relative alle stragi nazifasciste.
Tra i protagonisti coinvolti in questo pezzo di storia nazionale è doveroso ricordare che l’indomito popolare Giuseppe Donati, riconosciuto l’iniziatore del giornalismo d’inchiesta in Italia, dovette rifugiarsi all’estero dove morì di stenti nel 1931.
Grande fortuna arrise, invece, al gerarca Italo Balbo, celebrato come fondatore dell’Aeronautica militare che nel 2023 compie il secolo di vita, fino alla morte sospetta (un “caso” che sembra ripersi in altri contesti) sui cieli libici di Tobruch nel giugno del 1940 quando l’aereo che pilotava fu abbattuto “per errore” dalla controaerea italiana nelle prime operazioni della guerra mondiale, a fianco della Germania di Hitler, annunciata dal balcone di piazza Venezia il 10 di quello stesso mese.
Lo storico Alberto Melloni ha censurato la mancata presenza di politici di livello nazionale alle celebrazioni per i 100 anni dalla morte di Don Minzoni dove, ad ogni modo, è intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente della Cei Matteo Zuppi.
Una conferma ulteriore dell’attualità di don Minzoni quale “segno di contraddizione” da seguire come esplicitamente sottolineato dal cardinale Zuppi: «Nell’infamia del sospetto e delle accuse ad arte fatte crescere per isolarlo dalla Chiesa e da tutto il popolo, si disse che “faceva politica” e che quindi in fondo se l’era cercata. Se è così, il cristiano se la cerca sempre perché chiamato a un amore incarnato, nella storia, senza limiti».