L’Attila secondo Muti
Scarno, rapido l’Attila, dato a Venezia nel 1846, è opera molto amata da Riccardo Muti. Irruenta, romantica: arie impetuose, melodie appassionate e prerisorgimentali, dai sobbalzi potenti del cuore. Microcosmo imperfetto e teatrale. Il quartetto dei protagonisti – Attila, Ezio, Foresto e Odabella – la fa da padrone. L’Attila scuro di Ilkdar Abdrazakov vede fantasmi come Macbeth, Foresto è trepido come un Manrico. Così l’opera di un Verdi trentatreenne, per quanto fin troppo stringata, nelle mani di Muti. Pizzi diventa un affresco fascinoso.
Il canto sopranile di Tatjana Serjan delira in virtuosismi, l’orchestra sanguina nei violini e violoncelli uniti. Muti, l’elettrizza con i cantanti, la spreme nel canto d’un Verdi giovane e focoso, che promette scintille. Domina l’allestimento di Pizzi, un gran cavallo sotto l’arco classico biancogrigio. L’effetto è visionario, in particolare la comparsa di Leone, luminoso come una icona. La musica suggella in fragori del coro un bozzetto straordinario.