L’atletica è ancora uno sport credibile?

Al via a Mosca le gare di atletica leggera, fortemente condizionate da alcuni recenti casi di doping. 206 le nazioni partecipanti, per un totale di quasi duemila sportivi coinvolti
Il giovane atleta britannico Mo Farah

Un evento sportivo non aveva mai visto in gara rappresentanti di così tante nazioni, ben 206. Eppure, li hanno già definiti come i Mondiali di atletica più difficili della storia. Eh già, perché quella che si disputerà a Mosca, da sabato 10 a domenica 18 agosto, non potrà essere una rassegna iridata come tante altre. I recenti clamorosi casi di doping, da quelli che hanno coinvolto velocisti del calibro dello statunitense Tyson Gay e del giamaicano Asafa Powell, a quelli che hanno portato alla luce una sorta di “doping di squadra” in Turchia (oltre trenta atleti fermati, molti dei quali per uso di steroidi anabolizzanti), pongono diversi interrogativi sulla credibilità di una delle discipline più amate dal pubblico. Ma si può davvero vincere, competere ad alto livello in alcuni sport, senza “barare”?

La domanda è lecita, così come sono umanamente comprensibili le perplessità sui risultati di alcuni atleti straordinari. Così, ad esempio, la gente si interroga sulla effettiva bontà delle prestazioni del fenomeno giamaicano Usain Bolt, l’attuale atleta immagine di questo sport. Lui si proclama pulito: «Io dopato? Congelino il mio sangue per 50 anni», ha replicato in questi giorni a chi ha messo in dubbio la valanga di record realizzati in questi ultimi anni. Dubbi ingiusti, fino a prova contraria, anche perché non dobbiamo dimenticare che l’atleta giamaicano è sempre risultato “pulito” in tutti i numerosi controlli antidoping cui è stato sottoposto sinora.

Per questa rassegna iridata la Federazione internazionale giura di usare le maniere forti, con sempre più sofisticati controlli su sangue e urine degli atleti in gara. Inoltre, si sta discutendo di tornare ad elevare da due a quattro anni, probabilmente dal 2015, il periodo di squalifica in caso di prima violazione della normativa antidoping. «Non si devono trovare scuse per chi si dopa», ha spiegato nelle ultime ore Sergey Bubka, il più grande saltatore con l’asta di tutti i tempi, ora candidato alla presidenza del Cio (il Comitato olimpico internazionale). «Occorre rendere più severe le pene. Per la credibilità della nostra disciplina, e più in generale dello sport, è necessario proteggere maggiormente gli atleti onesti».

Bubka è solo una delle “figure carismatiche” dell’atletica leggera che si stanno battendo per uno sport più pulito. Edwin Moses, ad esempio, un altro campionissimo che fu imbattuto nei 400 ostacoli dal 1977 al 1987, dopo aver lavorato alcuni anni per l’Usada (l’Agenzia statunitense antidoping), svolgendo tra l’altro un ruolo chiave nell’inchiodare alle proprie responsabilità il ciclista Lance Armstrong, vuole provare a diventare nei prossimi mesi capo della Wada (l’Agenzia mondiale antidoping). La decisione finale ci sarà a novembre, ma la sua è certamente una candidatura autorevole, considerando anche quello che pensava di lui il nostro compianto Pietro Mennea che, in un fortunato libro, scriveva: «Percepivo che in qualche modo Edwin era come “sopportato” nell’ambiente dell’atletica americana. Oggi mi è chiaro che l’ostacolista era già allora scomodo per il suo manifesto impegno nella lotta al doping»

Staremo a vedere, quel che è certo è che i Mondiali dei prossimi giorni non partono certo con il piede giusto. Tra l’altro, oltre alle defezioni causa squalifica per doping, sono molti altri gli assenti illustri. Si va dal campione in carica dei 100 metri maschili, il giamaicano Yohan Blake, vittima di una lunga serie di problemi fisici, al campione olimpico e mondiale degli 800 metri, il keniano David Rudisha, fermato da problemi a un ginocchio. In campo femminile, invece, saranno assenti tra le altre la campionessa olimpica dell’eptathlon, la britannica Jessica Ennis, una delle atlete simbolo delle ultime Olimpiadi, e la croata Blanka Vlasic, icona del salto in alto femminile, che non ha ancora superato i problemi al ginocchio che le hanno impedito di gareggiare lo scorso anno ai Giochi di Londra.  

Nonostante ciò, in nove giorni fitti di gare non mancheranno i campioni capaci di entusiasmare il pubblico di appassionati. Alcuni nomi? In campo maschile spiccano tra gli altri il talentuoso mezzofondista keniano Asbel Kiprop, e il saltatore in alto ucraino Bohdan Bondarenko, mentre sul fronte femminile ci saranno atlete del calibro della neozelandese Valerie Adams (lancio del peso). Ci saranno poi atleti dalla faccia pulita come Mo Farah, uno degli “eroi” delle ultime Olimpiadi londinesi, un ragazzo britannico, ma somalo d’origine, che dodici mesi fa diede spettacolo realizzando una storica doppietta nei 5 mila e 10 mila metri (adesso, al culmine del successo, si sta dando da fare con diverse lodevoli iniziative di solidarietà a favore della sua terra d’origine, da cui fu costretto a scappare a soli otto anni a causa di una sanguinosa guerra civile).

Tra i quasi duemila atleti in gara, ci saranno infine, soprattutto, tanti ragazzi e ragazze, di cui magari nessuno parlerà, che si impegneranno al limite delle proprie possibilità, perché per loro lo sport è soprattutto gioia e divertimento, aldilà dello specifico risultato ottenuto o del raggiungimento di un record. Mentre scriviamo queste righe, mentre ripensiamo alle indelebili emozioni che di volta in volta ci trasmettono i nostri “eroi sportivi” (come seppe fare ad esempio proprio Farah ai Giochi di Londra), la domanda ritorna però spontanea: oggi si può davvero vincere, competere ad alto livello in alcuni sport, senza “barare”?

Noi vogliamo continuare a sperare che la maggior parte dei “campioni” non ceda mai alla tentazione di usare “scorciatoie” per riuscire a tenere fede alle altissime aspettative che, ammettiamolo, ai primi buoni risultati siamo noi stessi appassionati o addetti ai lavori, per non parlare degli sponsor, a mettere colpevolmente sulle loro giovani spalle.

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