L’atleta di Taranto

Oggi è tristemente nota soprattutto per l'inquinamento provocato dall'Ilva, tuttavia, ancora conserva resti di un importante passato, quando era tra le città più opulente della Magna Grecia
Vaso funerario epoca greca

Mi fanno quasi tenerezza i cartelloni pubblicitari che da qualche settimana decantano, a Roma, le bellezze storico-naturalistiche di Taranto e dintorni. Un tentativo – così l’ho interpretato – di mostrare un volto diverso e accattivante di una città che da tempo, purtroppo, sembra far notizia solo per il dramma dell’Ilva in quanto emblema di inquinamento industriale. E il pensiero è andato a quando, anni fa, durante una vacanza in Puglia, ho fatto tappa brevemente a Taranto.

Affascinante il borgo antico sorto sulla lingua di terra che separa il mar Piccolo dal mar Grande: un tripudio di stili ed epoche differenti che rispecchiano la movimentata storia di questa città fondata, al dire di Eusebio di Cesarea, da coloni spartani, e nella quale si sono avvicendati non sempre pacificamente popoli e culture; borgo che non ha nulla da invidiare ai centri storici di altre nostre città, ma che ahimè ho visto non valorizzato abbastanza, e in parte decisamente nel degrado.

Dopo aver percorso una maglia di vicoli angusti e ombrosi e di assolate piazzette, ho ammirato in piazza Castello due possenti colonne doriche e parte di una terza, uniche superstiti di un tempio tra i più antichi dell’Occidente: tradizionalmente dedicato a Poseidone, lo era più probabilmente ad una divinità femminile. Con esso, poche altre le testimonianze visibili di quando la colonia era assurta al ruolo di città-guida, tra le più opulente della Magna Grecia (nel IV secolo a. C. la popolazione raggiungeva la ragguardevole cifra di circa duecentomila abitanti).

Senonché, a renderle pienamente giustizia, ecco in via Cavour il Museo nazionale archeologico, che occupa il settecentesco ex convento di San Pasquale o dei Frati Alcantarini, ampliato verso la metà del XX secolo con l’adiacente corpo settentrionale dell’Ala Ceschi. Museo che illustra la storia di Taranto e del suo territorio per fasce cronologiche: dal periodo preistorico e protostorico a quello greco (senza tralasciare le tematiche dei rapporti dinamici con il mondo indigeno preromano) e dalla conquista romana al periodo tardoantico e medievale.

Impossibile dar conto della ricchezza delle sue collezioni, parte delle quali – purtroppo – ancora interdette al pubblico per riallestimento delle sale. Basti dire che il museo, tra i più importanti d’Italia, è noto in tutto il mondo specialmente per i raffinati oggetti di oreficeria (orecchini, collane, anelli, diademi, corone) rinvenuti nelle sue necropoli. E a proposito di quest’ultime: avendo uno degli ampliamenti della città inglobato una zona riservata alle sepolture, ne risultò una insolita alternanza fra tombe ed abitazioni, che lo storico greco Polibio spiegava come segno di una precisa volontà dei tarantini, i quali intendevano così rispettare un oracolo che garantiva loro una grande fortuna se avessero abitato «coi più», cioè coi defunti.

Ma non solo per gli ori è celebre questo museo, lo è pure per il monumentale sarcofago proveniente dalla “Tomba dell’atleta” (480 a. C.): unica sepoltura in tutto il mondo greco, almeno finora, per aver restituito integro lo scheletro di un concorrente a gare sportive nell’antichità, ostenta una ricca decorazione pittorica policroma e tre delle quattro anfore “panatenaiche” associate al defunto, ossia i vasi particolari destinati ai vincitori degli agoni svolti in occasione delle “Grandi Panatenee”, feste che si svolgevano ad Atene ogni quattro anni. In queste ceramiche a figure nere di grande eleganza – e qui m’è venuto spontaneo il confronto con le coppe spesso di cattivo gusto assegnate ai vincitori sportivi di oggi – era contenuto l’olio ricavato dagli uliveti sacri dell’Attica, premio simbolico al vincitore.

L’atleta, deposto all’interno del sarcofago su una kline (letto) di legno e con accanto alla mano sinistra un vasetto di alabastro per gli oli e gli unguenti usati nella preparazione atletica, dovette essere una vera leggenda dell’epoca, se per ben quattro volte vinse ai Giochi Panatenaici in una delle specialità più difficili e poliedriche: il pentathlon. È quanto risulta dagli studi scientifici condotti sui resti ossei, che hanno evidenziato i segni della potenza del tarantino nel lancio del disco, nel salto in lungo, nel tiro del giavellotto, nella corsa e nella lotta. E altro ancora è emerso: l’uomo era sui trent’anni, di corporatura robusta, alto circa 170 cm (una statura eccezionale per l’epoca) per un peso di 77 kg. La sua dieta alimentare comprendeva principalmente cereali e frutta, ricchi di carboidrati, ma anche una buona dosa di fonti proteiche costituite dal pesce azzurro di piccola taglia (acciughe, sarde, sgombri), da crostacei ed ostriche, senza escludere la carne. Le cause della morte? Ne sono state ipotizzate due: eccesso di fatiche sportive o un possibile avvelenamento tramite arsenico, dovuto forse a rivalità sportiva. Un’ultima curiosità: nell’agosto 2008 l’atleta di Taranto col suo corredo funebre ha fatto una trasferta cinese per essere esposto a Pechino in occasione delle Olimpiadi.

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