L’Asean esclude il regime del Myanmar
Per la prima volta nella sua storia, l’Asean, fondata a Bangkok nel 1967, ha escluso da un incontro pleanario, un suo membro per “non aver rispettato gli accordi e le promesse fatte” agli altri membri.
Un passo che possiamo definire pesante, se si pensa che la politica dell’Associazione è sempre stata quella di non interferenza negli affari interni di ogni membro. Ognuno dei 10 Paesi dell’Asean ha non pochi scheletri nel proprio armadio. E ognuno, fino ad oggi, non ha mai puntato il dito contro un altro membro nel timore di essere a sua volta scoperto per quello che nasconde sotto il proprio tappeto.
Tra il 26 ed il 28 Ottobre scorso, l’Asean ha per la prima volta cambiato atteggiamento. Su iniziativa del Brunei (che detiene, al momento, la presidenza dell’Associazione) e con l’appoggio esplicito della Malaysia, l’autoproclamatosi Primo Ministro del Myanmar, Min Aung Hlaing, è stato escluso dagli incontri della 38esima e 39esima sessione dell’Asean. La ragione: Min Aung Hlaing ha completamente disatteso (cosa non nuova per i generali del Myanmar) le promesse di pace e riconciliazione interna dichiarate dopo il colpo di stato del 1° febbraio, fatte all’Asean nell’aprile scorso.
E l’ha fatto spudoratamente, schiacciando con la forza delle armi civili inermi che manifestavano contro la sua presa del potere, e vietando ogni visita dell’Asean alla consigliera Aung San Suu Kyi, tuttora trattenuta in un luogo segreto. Da quel giorno ad oggi si contanto circa 1.200 manifestanti uccisi e circa 8.000 imprigionati. Ed in questi giorni, decine di migliaia di militari del regime si stanno ammassando nel nord del paese, nello stato di Chin, con artiglieria pesante e armi di distruzione.
Lo scopo abbastanza evidente è quello di radere al suolo le città della regione, con chiunque vi sia dentro, che si sono ribellate all’illegittimo regime instaurato dai militari. Una presa di posizione dell’Asean in tutta questa faccenda era stata più volte invocata anche dalla Cina, che auspica un impegno concreto dell’Associazione nei problemi della regione e verso gli stati membri: insomma, basta chiedere ai grandi di intervenire nelle liti tra gli stati membri, quando si può e si deve fare da soli. Ed è ora che l’Asean faccia da sola.
Potremmo dire che da febbraio fino ad ottobre 2021, i tre Paesi musulmani di Indonesia, Brunei e Malaysia (vedi questione dei Rohingya, musulmani, perseguitati dal regime birmano) hanno giocato tutte le pedine diplomatiche in campo per convincere il generale Min Aung Hlaing ad azioni almeno ragionate ed in linea con i tempi, dove la diplomazia, il compromesso, devono prendere il posto delle armi. È stato chiesto più volte al regime di incontrare la signora Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace e rappresentante del Paese presso l’Asean, imprigionata con pretestuose accuse di corruzione. Richiesta ignorata.
Ed allora è avvenuta l’esclusione, che ha colto di sorpresa i militari del Myanmar, mentre il Nug, il governo democratico di unità nazionale, dichiarato illegale dai militari, ha accolto positivamente la decisione, come pure la grande maggioranza dei cittadini. Una mossa, questa dell’Asean, a dire il vero, molte volte invocata. E ritorna sul tavolto anche la questione dei Rohingya, e sempre di più negli ambienti internazionali si parla apertamente di genocidio da parte dei militari del Tatmadaw. Strage realizzata nell’agosto 2017 per ordine del generale Hlaing. Colto di sorpresa da questa inaspettata esclusione dall’incontro dell’Asean, Min Aung Hlaing ha liberato qualche migliaio di prigionieri politici, per poi, dopo due giorni, arrestarne di nuovo più della metà.
Min Aung Hlaing si sente probabilmente isolato ed escluso da quei Paesi che riteneva amici. Gli resta, in pratica, solo il sostegno della Russia, che ha diversi interessi strategici ed economici in Myanmar, e che rifornisce l’arsenale del regime di armi e tecnologia militare. Ma anche per la Russia non sono tempi facili in campo internazionale, e la Cina, che non nulla da guadagnare in un Myanmar in guerra, richiede un orientamento diverso al Myanmar ed al suo leader. Il Dragone punta alla stabilità delle nazioni dove ha fatto investimenti ed ha forti interessi strategici, come in Myanmar, e non gradisce guerriglie alle porte dei suoi impianti produttivi.
Uno dei gruppi che è stato particolarmente preso di mira dai militari in Myanmar, sono i cristiani di tutte le confessioni. I militari, contro ogni convenzione internazionale, non hanno esitato a invadere e saccheggiare chiese, a sparare sui fedeli riuniti in preghiera, ad uccidere il pastore battista Cung Biak Hum, di 31 anni, amputandogli il dito per prendere l’anello nunziale.
Un sacerdote della diocesi di Pekhon, nello stato di Shan, è stato minacciato di morte dai militari, perchè accusato di cooperare con i ribelli, che sarebbero poi collaboratori e simpatizzanti del governo in esilio, il Nug. Negli stati di Chin e Kayah, le devastazioni delle chiese sono all’ordine del giorno, come anche l’intimidazione verso la Caristas (Karuna), accusata di aiutare la gente in fuga dalle repressioni. Tra le 100 mila e più persone scappate nella foresta ci sono preti e suore, ed è impossibile ai cattolici delle organizzazioni caritative rimanere indifferenti verso questa tragedia umanitaria, come l’ha più volte definita l’Onu.
La comunità internazione deve continuare a fare pressione non solo sul regime, anzi soprattutto nei confronti di Russia, Cina e dei Paesi Asean. Anche se Jake Sullivan, consigliere Usa per la sicurezza nazionale, ha avuto col Nug un incontro virtuale il 15 ottobre scorso, una soluzione unilaterale sostenuta dagli Usa può solo portare in un vicolo cieco. Bisogna che l’intera comunità internazionale agisca insieme, in modo multilaterale e costante, per la pace e la vita del popolo, anzi, dei popoli del Myanmar. E occorre riportare la pace e la giustizia, ora. È a rischio la pace non solo in Myanmar ma in tutta la regione.