L’arte giapponese di rendere preziose le fratture

Si dice che “un vaso rotto non sarà mai come prima”, nel senso anche metaforico che quando qualcosa si spezza, anche se riparato, non potrà più tornare al suo valore precedente. Ma è davvero così? In Giappone si ha un’altra idea.
Fonte: Wikipedia

C’è un’antichissima arte giapponese, chiamata 金継ぎ (kintsugi), dove il carattere cinese 金 (kin) sta per “oro” e 継 (tsugi) per “riparare”. Si tratta di una tecnica di restauro secondo cui un vaso di ceramica (sopratutto quelli dedicati alla cerimonia del tè), se rotto, viene riparato attraverso una “colla dorata” composta da lacca urushi mescolata a polvere d’oro.

Tale arte risale al periodo Muromachi, durante lo shogunato di Yoshimasa (1435-1490). Si racconta che Yoshimasa ruppe una delle sue tazze da tè e i maestri ceramisti giapponesi la ripararono attraverso l’estetica del wabi sabi. Il wabi sabi non è solo un concetto artistico, ma affonda profonde radici dalla filosofia Zen, basata sull’accettazione della transitorietà e imperfezione delle cose. I ceramisti, dunque, decisero di esaltare quelle fratture applicandovi una lacca con polvere d’oro. Il risultato ottenuto fu apprezzato da Yoshimasa che vide la sua tazza non solo riparata ma dotata di “nuova vita”, carica delle sue imperfezioni e proprio per questo ricca di bellezza: era diventata unica. Da allora quest’arte si è diffusa fino ad oggi, diventando uno dei simboli della cultura giapponese.

Vasi riparati con la tecnica del kintsugi mostrano la loro straordinaria bellezza proprio grazie alle linee di frattura, che diventano motivo di impreziosimento del vaso. Scopo di questo tipo di riparazione infatti, non è quello di nascondere il danno, ma anzi di enfatizzarlo, incorporandolo perfettamente nell’estetica del vaso. Dal punto di vista artistico, il pezzo riparato risulterà così migliore dell’oggetto al suo stato originale. Inoltre, la casualità con cui la ceramica si frantuma fa sì che ogni vaso risulti avere un diverso intreccio di linee dorate, unico e irripetibile. Vasi prima tutti uguali, se rotti e riparati con la tecnica del kintsugi, diventano ognuno un oggetto unico nel suo genere e, per questo, di valore incommensurabile, una vera e propria opera d’arte. Tale pratica vuole suggerire che da ogni imperfezione può nascere una perfezione maggiore, sia estetica che interiore.

Nell’attuale società dove regna invece il culto alla perfezione (basti pensare ai mille filtri a disposizione per ritoccare foto allo scopo di nascondere tutti i nostri difetti fisici), l’arte del kintsugi ha da dirci qualcosa. Nella vita, ognuno di noi si trova prima o poi di fronte a eventi dolorosi, più o meno traumatici. Il dolore, il proprio limite fisico o caratteriale, sono tutti scheletri che vorremmo nascondere nei nostri armadi. Il kintsugi invece, ci invita ad avere il coraggio di “entrare nella cantina buia” del nostro cuore e a riguardare la nostra storia, liberi da ogni giudizio sugli altri e su noi stessi. Questa diventa una vera e propria terapia, che non solo ci fa accettare chi siamo e da dove veniamo, ma ci fa trovare quel “filo d’oro” che rende ognuno di noi unico e irripetibile, e per questo, preziosissimo e insostituibile. Ed ancora, come le fratture vengono valorizzate dal prezioso metallo, la persona può mostrare le sue cicatrici, perché rappresentano il suo vissuto in un processo di rinascita.

Forse il punto è: dove trovare questa “colla dorata” nella nostra vita? Può essere lo sguardo d’amore di una persona che ci ama così come siamo, un gesto di gratitudine, una richiesta di perdono. Per i credenti cristiani può essere anche il rivolgere lo sguardo a Gesù in croce che grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,47). È il Gesù che si è fatto spaccatura, frattura, e che ha deciso di non nascondere la sua sensazione di fallimento e di limite. Come tanti maestri dello spirito insegnano, è attraverso quel grido che avviene una nuova alleanza, una nuova “giuntura” tra Dio e l’umanità.

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