L’arte di Sandro Luporini
A 86 anni, dritto come un fuso, aria sorniona con la gran chioma bianca, Sandro Luporini è sceso da Viareggio, dove vive, alle Terme di Diocleziano a Roma. Per presenziare a una nuova rassegna – dopo molte altre che ne dicono la fama – di sue opere, curata da Philippe Daverio. Scrittore e pittore, amico e collaboratore dei testi di Giorgio Gaber – fino alla morte di costui nel 2003 –, Luporini appare e non appare: un po’ come ha sempre fatto. Preferisce defilarsi, almeno intimamente – questa è la sensazione che se ne ricava, osservandolo –, pur in mezzo alla gente. Lui ha ragione. Vuole che noi ci fermiamo davanti ai suoi quadri, messi vicini l’uno all’altro con bella armonia, in un percorso che assomiglia a tanti “canti” di una "commedia" umana che non nasconde, forse, in modo nebuloso, l’intenzione di essere, anche se un poco, “divina”.
Luporini dipinge finestre, spiagge, poche persone, qualche animale: il mare e il cielo. Bisogna passare e ripassare davanti ai suoi quadri per non incorrere in una sottile tentazione, quella della normalità di soggetti uguali, anche se non simili. È la solita “tentazione” che arriva leggendo certi poeti – penso ad Ungaretti – che in pochi versi dicono tutto, e sembra ripetano la stessa cosa. Ed invece quanto spessore, e che incantesimo. Doloroso.
Luporini è un poeta. I suoi quadri sono versi di una elegia malinconicamente bella. I cieli velati di grigio, le onde battute e ribattute in tenerezze cinerine, la solitudine esistenziale di uomini che passeggiano sulla spiaggia, di donne al sole, di un uomo pensieroso col suo cane sullo sfondo di un veliero, la nave che improvvisa appare dalla finestra appena aperta sul far di un’alba incerta; la notte di un Carnevale sulla spiaggia dove non c’è gioia, il primo piano della mareggiata che avanza verso di noi come la vita e ci fa sentire minimi di fronte ad essa…
Grande protagonista è il Tempo. Sarà lui il gabbiano aleggiante nel cielo che troppo spesso inquieta le tele? O l’albero che s’affaccia frondoso nella nebbia tremolante della marina? Pittore non di certezze, ma di ricerca, non di chiarezza ma di mistero, Luporini incanta con la sua lirica elegiaca, che fa pensare a certe melodie di Vincenzo Bellini, a qualche Andante di Mozart o a qualche canto perduto nel chissà dove di Chopin.
Classificato da critici in vario modo come appartenente a qualche scuola o gruppo artistico, in verità Luporini appartiene solo a sé stesso, com’era l’amico Gaber. O, meglio, alla sua anima. Che è inquieta, profonda, tesa ad andare oltre il velame dell’esistenza, verso un infinito profondissimo nel quale forse c’è la quiete. In questo senso si può parlare in lui di una ricerca metafisica: non importa se cosciente o meno, lo spirito umano non ha sempre bisogno di spiegazioni o di conoscere subito, con certezza, dove arriverà.
Pittore non formale o informale, non simbolico o altro, Luporini distende la sua poesia con discrezione, per allusioni – tocchi e ritocchi su certe spume delle onde –, pennellate rapide, delicatissime sfumature di rosa (Stallo n. 2) e celestino (Dalla finestra, 2000), violetti ombrati (Mareggiata, 2008): il colore “parla” ma non grida, i sentimenti sono sfumati da un dolore che si è come trasfigurato, così che la sua arte è diventata quello che forse lo accomunava a Gaber, un altro ricercatore come lui: visione. Di qui, l’elegia come canto, la nebbia come parola, il cielo come porta aperta verso un ineffabile Dove.
Fino all’11 settembre (catalogo Electa).