L’arte di essere accanto
«Nessuna mistificazione del Natale se durante l'Avvento si riscopre il valore dell'altro». Ce lo racconta con una sua riflessione il vescovo di Latina Mons. Petrocchi, autore del libro "Diventare se stessi" di Città Nuova per il primo appuntamento con la rubrica
L’Avvento: tempo di attesa che si concretizza con passi decisivi nel nostro cammino di fede. Ed è così anche nei rapporti con gli altri, una possibilità costantemente da riscoprire per non cadere nella trappola del «non-Natale» come lo definisce il vescovo di Latina Mons. Giuseppe Petrocchi nel brano tratto dal libro "Diventare se stessi" di Città Nuova editrice.
«Ogni anno c’è aria di festa per le strade, all’approssimarsi del Natale. Ma, dietro lo sfavillio di luci e i negozi affollati di gente, si rischia di scoprire un grande vuoto. Sempre più insidioso e pervasivo, infatti, si avverte il pericolo di rimanere invischiati nel “Natale-esteriore”, versione consumistica e mistificata del Natale cristiano. È un fatto evidente, purtroppo, che per molti il motivo dell’allegria natalizia non nasce più dal celebrare il Signore-che-viene, ma dalla fruizione di un tempo di vacanza, da spendere in divertimenti: più o meno legittimi, però solo mondani.
«Un Natale senza Gesù, dunque. Ma un Natale che non rievoca l’evento di Betlemme diventa un Non-Natale; anzi, può trasformarsi in un Anti-Natale, caratterizzato da ritualità edoniste e da atteggiamenti neopagani.
Per questo, come credenti, dobbiamo chiederci: che Natale è il nostro?
«In che modo “fare posto” al Signore che, oggi come allora, chiede accoglienza nelle nostre case? Non possiamo contentarci di una risposta generica. Dobbiamo, invece, tradurre in modalità concrete l’apertura della mente e del cuore all’arrivo dell’Emmanuele, il Dio-con-noi. Pensando che, nel nostro mondo opulento, più incalzante che mai sentiamo levarsi «il grido dei poveri» (Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelica testificatio, 29 giugno 1971, 17), vorrei proporre una via sicura di “ospitalità” natalizia: la generosità verso gli “ultimi”. Soccorrere gli indigenti è un gesto sacro – ricordiamolo – e non un semplice atto di filantropia: infatti, in essi incontriamo proprio Gesù. Non è forse Lui che ci ha detto: qualunque cosa avrete fatto ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avrete fatta a me (cf. Mt 25, 31-46)?
«Sappiamo, inoltre, che la gratuità del dare attira benedizioni dall’Alto e favorisce la nostra crescita spirituale e umana. Nulla, infatti, promuove la pienezza personale e comunitaria meglio dell’amore verso i poveri. Non basta, però “fare di più”, occorre approfondire l’“essere-accanto” a loro: non nell’atteggiamento di elargitori di elemosine, ma con l’anima di chi si rende prossimo, imitando il Signore. Ogni uomo, infatti, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto e condivisione (cf. Cei, Commissione Ecclesiale Giustizia e pace, Educare alla Pace, 8).
Per questo la carità evangelica, per essere autentica ed efficace, esige la conversione del cuore: poiché si può aiutare qualcuno senza rispettarlo pienamente come persona. Accogliere il povero, il malato, lo straniero, il carcerato – infatti – èfargli spazio nel nostro tempo, nella nostra casa, nelle nostre amicizie, nella nostra città e nelle nostre leggi. «La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto» (Cei, Evangelizzazione e testimonianza della carità, Orientamenti pastorali per gli anni ’90, 8 dicembre 1990, 39).
«Va poi sottolineato che una migliore ridistribuzione delle ricchezze non costituisce solo un atto di carità cristiana, ma anche un dovere di giustizia. Giovanni Paolo II scrive che nella sua provvidenza Dioha donato la terra agli uomini: ciò sta a significare che l’ha «donata a tutti» (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, 13). Perciò le ricchezze della creazione sono «da considerarsi come un bene comune dell’intera umanità» (ibid.). Chi possiede questi beni come sua proprietà, ne è «in verità soltanto un amministratore, cioè un ministro tenuto ad operare in nome di Dio, unico proprietario in senso pieno, essendo volontà di Dio che i beni creati servissero a tutti in modo giusto» (ibid.).
«Ma se spingiamo più a fondo il nostro pensiero, ci accorgiamo che spalancare le braccia ai poveri significa anche accogliere noi stessi, nelle nostre povertà. Sì, perché, a ben guardare, è proprio la povertà che ci accomuna ai “poveri”. Ci sono, infatti, uomini-poveri, ma anche poveri-uomini. Se non apparteniamo alla prima categoria, è molto probabile che, a vario titolo, ci ritroviamo nella seconda. Scopriamo, allora, ragioni evangeliche e umane che portano a riconoscerci “come” loro e ci rendono “solidali” con quanti sono segnati dall’emarginazione: qualunque sia il volto che essa assume.
«In questa prospettiva il dare diventa sempre un ricevere: poiché, se è vero che noi possiamo aiutare altri uomini ad essere meno indigenti, è vero pure che loro ci aiutano ad essere meno egoisti. E, in tale scambio, è proprio chi dona ad avvantaggiarsi di più. Sant’Agostino riserva pagine meravigliose a questa profonda dimensione del Natale. Il Figlio di Dio – scrive con impeto – «si è annientato, assumendo la forma di servo, divenuto simile agli uomini e riconosciuto come uomo (Fil 2, 7): ricco presso il Padre e povero presso di noi; ricco in cielo, povero in terra; ricco come Dio, povero come uomo […]. Dove ti è mostrata la debolezza, lì ti si nasconde la divinità. È ricco perché lo è; povero perché tu eri tale. Tuttavia la sua povertà è la nostra ricchezza; come la sua debolezza è la nostra forza […]. Per questo apri il seno della fede: accogli il povero, se non vuoi restare povero» (Esposizione sui Salmi, Salmo 40, 1, 6).
«Permettetemi di concludere queste riflessioni con una frase scritta ai suoi parrocchiani da don Adriano Bragazzi, poco prima di concludere la sua esistenza terrena. Sono parole rivolte a ognuno, ma specie a chi manca del necessario (economico, sociale, culturale, spirituale) per vivere pienamente da uomo: «Proprio perché mi appartieni, imparerò a condividere, e non mi permetterò di essere felice da solo. Sarà mia preoccupazione cercarti, vederti, sentirti, ascoltarti, eliminare la tua solitudine, essere la tua voce, la tua presenza, la tua forza».