Larte del servilismo di Jackob von Gunten
Scenicamente si respirano le stesse atmosfere di Kafka: claustrofobiche, di attesa, di disagio, di precarietà. Siamo dentro il romanzo autobiografico, del 1908, di Robert Walser Jakob von Gunten. Come l’inarrivabile fortezza kafkiana de Il castello, anche l’Istituto Benjamenta descritto dallo scrittore svizzero rappresenta un desolante “non-luogo” che umilia ed esalta chiunque ne entra in contatto.
Accade al giovane benestante Jakob, il quale, parlando della scuola per camerieri dove aspira di diventare un buon servitore, afferma che tutta la sua vita dentro quelle mura gli appare come un sogno incomprensibile, un luogo dal quale non si può uscire se non per essere una nullità". E, nonostante questo, proverà infine un “senso strano, di contentezza”. Attraverso una storia di formazione, Walser, nel teorizzare “l’arte del servilismo”, smitizza, annientandoli con abilità e ironia, certi valori borghesi di facciata e, soprattutto, il concetto di arrivismo e di subordinazione.
Von Gunten è l’ultimo allievo di un istituto che col passare del tempo si rivelerà, in realtà, un imbroglio, un luogo “dove non c’è un pensiero”, dove l’apparato scolastico è destinato a estinguersi per consunzione. L’unica lezione che lì si svolge verte sempre sullo stesso argomento “Come deve comportarsi un ragazzo?”, e la sola docente è Lisa, la sorella del severo direttore dell’istituto, una donna delicata e triste per la quale il giovane nutre un sentimento di timida venerazione.
La morte dell’insegnante segnerà la fine dell’enigmatico istituto. Verrà abbandonato da tutti compreso il direttore, che trascinerà con se il giovane verso un luogo deserto. Un altrove che non lascerà tracce. Impresa difficile mettere in scena un testo letterario apparentemente privo di accadimenti e di progressione drammaturgica. Meritorio, quindi, lo sforzo intelligente e creativo di Lisa Natoli. Con la sua regia rigorosa, artigianale, ci immerge in un universo onirico, inquietante, sospeso, dove il senso di straniamento del protagonista si diffonde, sapientemente, per tutto la spazio in profondità del teatro India. Complici le luci taglienti e caravaggesche di un vero maestro, seppur giovane, di light design (Luigi Biondi); le scene evocative (di Fabiana Di Marco) di armadi che s’aprono e chiudono per passaggi e stanze segrete solo evocate, costellate di oggetti che si caricano di azioni e gesti; gli echi sonori sparsi e le voci fluttuanti nell’etere (di Alessandro Ferroni).
Dentro traiettorie geometriche e movimenti rarefatti che disegnano i rapporti tra i protagonisti nella quasi totale semioscurità,
agiscono quattro attori appropriati. Oltre a Monica Piseddu e Alberto Astorri, c’è lo studente Kraus di Emiliano Masala, figura chiave del servo zelante e perfetto, rimasto nell’Istituto, che svolge pedestremente la sua mansione, segue i precetti in maniera meccanica, attratto e ostile allo stesso tempo verso Jackob. Il suo incedere a piccoli passi, quasi scimmiesco, con lo sguardo sempre in basso, ne fanno una figura magnetica ovunque si trovi, siano zone d’ombre che di luce. Andrea Bosca conferisce al suo Jackob l’ingenuità funambolesca, l’ambiguità angelica, e la caparbietà di chi si è fatto “prigioniero” volontario per un’astratta idea di libertà. Che conclude con l’affermazione: “Io come singolo individuo sono uno zero”.
Al teatro India di Roma fino al 17 giugno.