L’arte del riformare è umile e miracoloso artigianato
«Una comunità non è mai fondata una volta per tutte. Il primo fondatore non può essere il solo e unico punto di riferimento. I bisogni della società cambiano; le comunità evolvono; i loro membri crescono. Esse hanno bisogno di essere continuamente ‘ri-fondate’. Il mito fondatore rimane ma la forma con la quale si incarna è chiamata a cambiare. È qui che la presenza di saggi ‘ri-formatori’ è necessaria. Questi sono capaci di avanzare, mantenendo e approfondendo il mito fondatore, potando e rimodellando ciò che nei primi anni sembrava essenziale ma che in realtà non lo era». Jean Vanier – Il mito fondatore
I riformatori consentono ad un carisma fondativo di restare vivo e fecondo, e alle comunità di tornare alle domande carismatiche originarie cambiando le risposte. Quando i riformatori non arrivano, o vengono osteggiati e non riconosciuti, le esperienze carismatiche e ideali inevitabilmente declinano per mancanza di presa sul presente, e quindi per carenza radicale di giovani e di ‘vocazioni’, dovuta all’incapacità di tradurre il primo messaggio e la prima esperienza.
Una crisi spirituale e morale profonda colpisce i suoi membri più coinvolti e motivati: in una prima fase soffrono per l’assenza di giovani e di nuove vocazioni, poi diventano indifferenti e, infine, provano persino una certa gioia, perché la loro delusione li porta a non augurare a nessuno di ripetere la loro stessa triste esperienza esistenziale. Una crisi che si manifesta, quindi, come invecchiamento non-buono, che porta a leggere la vita come decadenza e declino. Quando e se nelle comunità carismatiche concrete emergono questi sintomi, è chiaro che c’è un urgente bisogno di una riforma.
Nella fase della fondazione, i carismi generano più semi di quelli che riescono a fiorire nella prima stagione, che sono destinati a germogliare in quelle successive, quando i primi semi saranno invecchiati. Le potenzialità di un carisma sono maggiori di quelle che riescono a manifestarsi nella fondazione. Ci sono vene profonde che non affiorano subito, pur essendo legate alla stessa sorgente, destinate ad emergere durante le siccità o dopo i terremoti. Le povertà concrete, amate e abbracciate dalla Chiesa nel corso dei suoi due millenni, sono state molte più di quelle amate e abbracciate da Gesù di Nazareth e dai suoi discepoli. I poveri di Madre Teresa, di Francesca Cabrini, di Don Oreste Benzi, di Frei Hans, non sono quelli della Palestina di Pilato: questi nuovi carismi hanno fatto, in nome di Gesù Cristo, per le povertà “cose più grandi” di quelle compiute dallo stesso Gesù e dalla sua comunità storica.
Un processo analogo si ripete per ogni singolo carisma, che nel corso del suo sviluppo scopre dimensioni che non erano emerse durante la vita storica del fondatore. Il fondatore crea la comunità-movimento tramite un processo di scoperta del carisma, che gli si rivela progressivamente e durante la sua intera esistenza. Più difficile è prendere coscienza, nella comunità fondata, che questa scoperta progressiva del carisma continua anche dopo la prima fondazione, e che quando si interrompe o viene interrotta è il primo carisma che diventa sterile. Qualche volta è il Francesco storico che capisce che la Chiesa da ricostruire non è la chiesetta di San Damiano; altre volte è lo spirito di Francesco vivo tra i francescani che lo capisce e lo fa. È il Francesco dopo Francesco che porta a compimento la fondazione di Francesco di Bernardone.
Quando invece il processo di fondazione si blocca con la prima generazione, perché lo si considera completo e definitivo con la morte del fondatore, si impedisce al carisma di maturare e rivelarsi in pienezza, di illuminare e spiegare anche fatti e eventi della generazione fondativa. Come accade nelle nostre case, quando alcune mele poste in mezzo ai kiwi li fanno maturare. Il Francesco che continua a vivere dopo di lui, serve, in una misteriosa ma reale solidarietà inter-temporale, anche il primo Francesco. Sapremmo meno del suo carisma senza Bonaventura o Bernardino da Siena.
I primi beneficiari del coraggio dei riformatori sono i fondatori, che riescono a dire cose nuove e a volte diverse grazie a chi li ha liberati dai limiti del loro tempo storico. I riformatori fanno rotolare le pietre dai ‘sepolcri’ dei loro fondatori. Vengono ‘risorti’ dai loro sepolcri. Le vere riforme non sono soltanto una attualizzazione del carisma: sono una continuazione della prima fondazione, con frutti e miracoli diversi ma non meno meravigliosi. I secondi ‘miracoli’ sono essenziali per svelare i primi.
Perché, allora, le riforme, così preziose, sono rare e sempre molto dolorose? Le prime novità carismatiche, per poter sopravvivere nel tempo in cui sono nate (tutte le società hanno la tendenza ad uccidere i profeti che potrebbero salvarle), hanno dovuto operare una sorta di ibridazione tra nuovo e vecchio, per impedire che il vecchio rigettasse e soffocasse il nuovo. Così, attorno ai primi buoni arbusti, la prima generazione sviluppa naturalmente una vegetazione ancillare a protezione delle tenere nuove pianticelle, che consente loro di fiorire all’ombra di altre piante più robuste e resistenti alle intemperie.
Le intuizioni carismatiche si circondano così di tutta una boscaglia sussidiaria; si rivestono di infrastrutture, linguaggi, regole scritte e non scritte, a volte auto-prodotte altre volte ereditate dalla tradizione o dal contesto storico specifico. Questa ibridazione – che è un processo diverso e parallelo alla produzione ideologica che accompagna lo sviluppo di un ideale, di cui abbiamo già parlato su queste pagine -, ad un certo punto diventa una camicia di forza, che blocca la crescita e chiude il futuro. Le riforme arrivano per allentare e, nei casi più felici, spezzare il rivestimento iniziale divenuto progressivamente camicia di forza, lo scudo protettivo che si è trasformato in una rigida corazza d’acciaio.
La difficoltà estrema dell’operazione di liberazione consiste nella difficoltà di distinguere la camicia di forza dalla ‘persona’ che la indossa. Nelle comunità carismatiche più grandi e ricche, l’ibridazione tra vecchio e nuovo è stata profonda e si è protratta per molti anni, e così pezzi di corazza sono entrati nella carne, e la pelle ha rivestito parti dell’armatura. Il primo luogo che racchiude la compenetrazione di vecchio e nuovo è la stessa regola scritta e lasciata dal fondatore ai suoi eredi, dove convivono elementi di novità e altri di rivestimento, una coesistenza di cui non è consapevole, se non in minima parte, lo stesso fondatore.
Le riforme, allora, sono dolorose perché togliendo la corazza, con essa viene sempre via anche qualche brandello di pelle. Da qui allora la tendenza, quasi invincibile, delle comunità a rigettare i riformatori di cui avrebbero un bisogno vitale. L’esigenza naturale e necessaria di proteggere e salvare il carisma finisce per bloccare i tentativi di riforma. In nome della purezza del carisma, lo si condanna alla sterilità. La purezza si trasforma in purismo infecondo, per non aver avuto coraggio carismatico sufficiente per strappare qualche lembo di pelle, una ferita da cui sarebbe passata la sola salvezza possibile.
Ogni traduzione è anche un tradimento, e la paura del tradimento non deve impedire la riuscita della traduzione. Perché senza traduzione le splendide poesie dei carismi restano incomprensibili a chi vorrebbe ascoltarle ma parla e capisce un’altra lingua. Ci sono molte esperienze ideali e carismatiche che oggi sarebbero ancora vive e/o feconde se fossero state capaci di generare una riforma dal dolore di una ferita.
Le riforme riescono troppo raramente perché vengono soffocati i riformatori autentici o perché vengono ascoltati i falsi profeti – o entrambe le cose. Anche perché i riformatori saggi e i falsi profeti si assomigliano molto, troppo. E quando i riformatori sono troppo semplici da individuare sono quasi sempre falsi riformatori. Il primo criterio per riconoscere un riformatore è il suo non presentarsi alla comunità come tale. Occorre sempre diffidare dei riformatori che si auto-attribuiscono questo titolo, e si presentano al popolo come ‘riformatori per vocazione’. La prima arte dei riformatori è quella dell’artigiano: sanno raccogliere le pietre di ieri, a volte anche le macerie, e con queste edificarci, con umiltà e speranza, una nuova san Damiano: più piccola dell’antico tempio, dove però si può riascoltare nel silenzio umile la prima voce, e qualche volta reimparare a pregare.
Quando i processi di riforma hanno successo, le comunità vivono una autentica resurrezione, e poi una pentecoste. Le diverse lingue si comprendono tra di loro, e ci si ritrova con nuove storie da raccontare. Le riforme sono anche una nuova evangelizzazione, il dono di buone novelle da narrare e narrarci gli uni gli altri. Alle prime storie fondative se ne affiancano nuove, che fanno rivivere e ricantare le prime. La crisi è sempre una carestia di storie capaci di co-muoverci, di farci muovere dentro e insieme. Le riforme ripopolano le comunità e il mondo con nuove storie: morti che risorgono, ciechi che vedono, acque tramutate in vino, poveri che diventano cittadini di un regno diverso.
Pubblicato su Avvenire il 3-4-2016