L’arte del dialogo
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Ho cercato di affrontare qualcosa che mi sta particolarmente a cuore, il dialogo, non con proposte teoriche e pratiche (cosa che ho già fatto in passato, con titoli quali, fra gli altri, Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, Educare al pluralismo religioso, Il dialogo è finito?), ma nella prospettiva di un racconto di vita: ovviamente la mia, l’unica su cui mi sento legittimato a balbettare qualcosa. Di un dialogo non solo teorico, ma sperimentato dal vivo nel corso di una quantità ormai innumerevole di faccia a faccia; talvolta, di corpo a corpo, svoltisi in un periodo di tempo piuttosto lungo; corrispondente, per di più, alla stagione accidentata in cui il nostro Paese è transitato, quasi senza accorgersene, dall’essere luogo per eccellenza in cui non ci si poteva non dire cristiani, almeno crocianamente, culturalmente, sociologicamente, anagraficamente, tradizionalmente, a spazio multiculturale e multireligioso.
Con tutte le resistenze e le opportunità del caso: le prime, trasparenti e sbattute con regolarità in prima pagina da giornali, siti web e politici senza troppi scrupoli, le altre, in genere invisibili e comunque sottotraccia, purtroppo. Ciò che è innegabile, in ogni caso, è che nell’arco di tre/quattro decenni siamo passati dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni.
Ho scelto, qui, di non essere esaustivo: non avrei potuto, e non ci sarei riuscito. Ho deciso di rovistare nella mia memoria personale raccogliendo le tracce di alcune esperienze, spesso felici, talora in chiaroscuro, ma per tanti versi esemplari. Quelle che, nella cultura anglosassone, si dicono best practices, buone pratiche, durante lo svolgimento delle quali non sono mancati, naturalmente, errori, incidenti di sottovalutazione o di sopravvalutazione, perplessità e ripensamenti sulla direzione di marcia. Grazie a esse, comunque, ho imparato quanta ricchezza può giungerci dall’incontro – casuale o cercato – con un fratello o una sorella, oppure con un gruppo più o meno consistente di uomini e donne che si ispirano a una fede religiosa per plasmare di senso i propri giorni.
L’augurio che mi muove è che il mio racconto possa servire a qualcun altro, semmai per spingersi a narrare il suo. Perché una delle poche convinzioni irrinunciabili di cui dispongo al momento è che al dialogo (ecumenico, interreligioso, interculturale) non si dia alternativa, nell’attuale fase storica del nostro pianeta. Così come, a ben vedere, in ogni sua fase storica. Certo, come spiega il poeta e narratore brasiliano Rubem Alves, «le convinzioni sono le principali armi del diavolo. Le maggiori atrocità della storia dell’umanità, religiose e politiche, sono state commesse da persone che non avevano il minimo dubbio circa la verità dei loro pensieri. Le persone che dubitano, al contrario, sono tolleranti. Sanno, infatti, che quello che pensano non è la verità. I loro pensieri non sono molto di più che ipotesi».
Per questo esse ascoltano quello che gli altri hanno da dire, poiché può essere che abbiano ragione. Il dialogo, a ben vedere, è un’arte che s’impara, una scalata impervia che pure si deve affrontare, non moltiplicando le parole ma cercando piuttosto di fare il vuoto dentro di sé. Ecco una prima pista di riflessione! Oggi il dialogo non funziona a dovere soprattutto perché stiamo assistendo, nello spazio pubblico, a un vero e proprio affastellamento di parole a vanvera; mentre chi tenta di dialogare non compie la prima operazione fondamentale, che è il fare vuoto dentro di sé per permettere l’ascolto dell’altro. In effetti, non viviamo spesso esperienze di reale ascolto, ma situazioni generalizzate di giudizio nei confronti dell’altro; anzi, di pregiudizio, perché ormai il messaggio corrente, in sintesi, è il seguente: esiste un nuovo nemico in mezzo a noi e si chiama islam, che è l’emblema dell’alterità assoluta, ha preso il posto del comunismo e tende a essere peggiore di quello perché dotato del medesimo impeto missionario del cristianesimo.
da "Un tempo per tacere un tempo per parlare. Il dialogo come racconto di vita" di Brunetto Salvarani (Città Nuova, 2016)
pp. 264 € 18,00